Nella sua Estetica, Hegel considera la scultura come l’autentica costituzione di un intervallo all’interno dello spazio maggiore in cui noi viviamo. Arnaldo Pomodoro percepisce, nello stesso senso, tutte le sue grandi opere come riferimenti spaziali, elementi di orientamento. La scultura, riuscendo a trasformare il luogo in cui viene posata, acquista una valenza testimoniale. Riesce ad esprimere, attraverso il gioco di rapporti con il paesaggio o con la città , la complessa relazione che intercorre fra l’uomo e la realtà . Proiettata nello spazio, evadendo dal peso della materia e ignorando un esplicito basamento fisso, la scultura si pone come presenza archetipica e, al tempo stesso, effettivamente attualizzabile. A partire dalla lezione del costruttivismo, essa si appropria del ruolo di inventare soluzioni inedite per la dimensione urbana.
L’impegno dell’artista nella diffusione della propria opera e la sua costante presenza all’interno del dibattito contemporaneo confermano che le sue convinzioni teoriche trovano concreto sviluppo in un’applicazione pratica nell’insieme delle relazioni sociali e culturali. La chiusura, alla fine del 2011, degli spazi espositivi della Fondazione Pomodoro in via Solari a Milano ha convinto l’editore Con-fine a documentare l’intera storia dell’istituzione attraverso la pubblicazione di un’intervista dello storico dell’arte Flaminio Gualdoni ad Arnaldo Pomodoro.
Non progettata come un monumento a se stesso, ma come ideale sistema engagé di interazione fra le diverse forme espressive, la Fondazione ha rappresentato, per anni, un polo di tensione e confronto tra le opere esposte e lo spazio circostante. Dall’intervista veniamo a conoscenza del fatto che già nel 1974, preparando una personale a Milano, lo scultore si era reso conto di quanto fosse difficile ottenere dai collezionisti il prestito delle sculture. Sarebbe stato utile, quindi, poter contare su una serie stabile di opere, visitabile da parte del pubblico. A partire da quegli anni, l’artista iniziava a far fondere le prove delle sculture più importanti, e contemporaneamente a riacquisire da privati e da galleristi alcuni dei primi lavori. Sulla scia dell’esperienza di altri scultori in Europa e negli Stati Uniti – Mark Di Suvero, Eduardo Chillida, Giacomo Manzù, Marino Marini –,  Pomodoro decideva di iniziare a progettare una Fondazione, identificando un luogo in cui collocare le opere. Negli anni Novanta, a Rozzano, nella cintura urbana di Milano, un edificio, ristrutturato su progetto di Pierluigi Cerri, ne era diventato la prima sede. L’artista definisce l’esperienza come un momento istruttivo, durante il quale due nuove consapevolezze si erano imposte. La prima riguardava l’esigenza che la Fondazione fosse collocata in un’area più centrale, per migliorarne il livello di fruibilità da parte del pubblico. La seconda indicava la necessità di spazi più ampi e flessibili per allestire mostre temporanee e per organizzare iniziative culturali, offrendo una continuità in grado di rendere il luogo un’istituzione viva, attiva sul territorio e capace di relazionarsi con gli sviluppi attuali dell’arte. Alla ricerca di un capannone dove costruire il modello della scultura Novecento (oggi collocata a Roma, all’Eur), l’artista scopriva un nuovo spazio. Pomodoro lo definisce come un interessante esempio di archeologia industriale situato in posizione strategica, nell’area Ansaldo – Città della Cultura. Ideale per la Fondazione, l’edificio ne ha ospitato le iniziative a partire dal settembre 2005, con l’esposizione La Scultura Italiana del XX Secolo che affiancava alle opere di Medardo Rosso e Arturo Martini i lavori dell’ultima generazione: Gianni Caravaggio, Loris Cecchini, Perino&Vele. Nel corso degli anni, la programmazione ha visto alternarsi, in mostre personali e collettive, le opere di Jannis Kounellis, Ugo Mulas, Lucio Fontana, Magdalena Abakanowicz e Cristina Iglesias. Dopo la sofferta decisione di rinunciare a quello spazio, la scelta è ora  quella di destinare alla prosecuzione del progetto gli spazi dello storico studio dell’artista in via Vigevano accanto al Vicolo dei Lavandai. Visitando lo studio-museo di  Isamu Noguchi, che assolve la propria vocazione istituzionale in modo tanto innovativo quanto umano, l’artista comprende che anche il proprio, trasformato in monumento architettonico nel 1983 da Vittorio Gregotti, può essere luogo ideale per un’impresa culturale di ampio respiro. Una strada che si snoda e che procede, attraverso segnali da decifrare nella trasmissione sapiente dell’antico alfabeto dell’arte, proprio come nel museo continuo che lo scultore aveva già creato nel piccolo borgo di San Leo.