In una società che sembra avere perso la capacità di creare contesti narrativi coesi e di strutturare sistemi collettivi di rappresentazione, il cinema appare come uno dei pochi collanti ancora in grado di influenzare i diversi aspetti della vita, sociale, psicologico, culturale. Esso è per molti versi simile ad un’enorme macchina di registrazione o a un archivio visivo-sonoro dell’immaginario contemporaneo.
Il suo successo, ricorda Christian Metz, è riconducibile all’impressione di realtà che caratterizza il significante cinematografico, ovvero al fatto che ciò che è percepito nei film ha delle affinità con la realtà quotidiana, affinità spesso deboli nelle altre arti.
Appare quindi plausibile la tesi di alcuni studiosi, secondo cui il cinema ha ricoperto nel Novecento lo stesso ruolo che avevano gli affreschi nel Medioevo, i quali raccontavano ai fedeli fatti religiosi ma al tempo stesso istruivano e impartivano le idee guida su come interpretare il mondo, cosa ricordare e selezionare, ruolo al quale le arti visive hanno in parte abdicato e che nel secolo appena trascorso è stato ricoperto proprio dalla settima arte. Basti pensare ad alcuni fatti di cronaca, trasformati in eventi su scala mondiale, come la strage compiuta da uno studente alcuni anni fa alla Columbine School negli Stati Uniti, entrata a far parte della memoria comune, grazie alle versioni cinematografiche dei registi
Michael Moore e
Gus Van Sant.
Il valore e il senso di fascinazione collettiva dello spettacolo filmico, precisa Brancato, evidenziano il suo ruolo di esponente di spicco della cultura di massa, capace di esprimere in modo significativo visioni e prospettive differenti.
Tuttavia, i processi di trasformazione dei fatti di cronaca in spettacolo mediatico a opera dello schermo hanno luogo prevalentemente nell’ambito del cinema popolare e della televisione, dove i principi della mimesi e di immedesimazione dello spettatore proiettano gli accadimenti reali in una dimensione epica e simbolica.
Nella produzione artistica l’esigenza fortemente sentita è di risalire piuttosto alla natura ontologica delle immagini, rivelata spesso, afferma Merleau-Ponty, nell’alternanza di due immagini o di due colori, che si identifica con la materia stessa del tempo. E in questa forma di radicalità , secondo Didi-Huberman, si fa strada una diversa modalità del visibile, in cui il valore relativo del racconto permette alle singole sequenze di emergere nella loro essenza unica e irripetibile. Sia per gli artisti che si ispirano al genere narrativo, sia per coloro che si situano sulla scia del filone critico-espressivo, il cinema non viene percepito come la lente attraverso la quale osservare il proprio tempo, ma come un sistema che elabora forme di rappresentazione autonome e a se stanti.
Si tratta ovviamente, come è stato già sottolineato, di una pratica artistica lontana dalla produzione commerciale dei film d’azione, distante anche dal mondo glamour dei video clip trasmessi dalle televisioni commerciali, sebbene oggi le sofisticate tecnologie del rendering costituiscano il luogo primario di elaborazione e di espressione, situato tra la cultura alta e la comunicazione dei nuovi media. “
Ciò che si definisce media culture è costituito da queste molteplici strategie di mescolanza, di abbassamento e di confusione tra il piano high e il piano mass, o low“.
Analogamente, l’accorciarsi progressivo delle distanze tra cinema underground, arti visive e forme di intrattenimento, si ritrova nei film d’artista che mettono a fuoco aspetti legati alla cultura di massa, situazioni comiche e surreali spesso confinanti con l’horror e con il travestimento, autoritratti, reality show, sketch, trailer, diventati strumenti per una ricerca soggettiva di carattere concettuale, finalizzata allo sviluppo visivo di un’idea. Ciò che molte opere filmiche tematizzano è in generale il ritorno all’unicità dell’immagine, nella sua qualità indiziale di avvenimento unico e irripetibile, radicato nella memoria di ciascuno di noi.
Sebbene anche le divergenze tra il film d’artista e il cinema d’autore si siano ridotte, permangono tuttavia delle distanze, dovute alle diverse economie di mercato e ai molteplici sistemi di diffusione e di circolazione delle opere. I cineasti che hanno fatto il loro ingresso nelle sale dei musei e nelle Biennali d’arte contemporanea –
Abbas Kiarostami,
Etom Egoyan,
Jonas Mekas,
Chantal Akerman,
Agnès Varda– hanno accostato alla tradizionale monoproiezione nelle sale cinematografiche, un’attività espositiva in spazi museali, con dispositivi di visione che ricordano in molti casi le messe in scena teatrali.
All’inverso, l’utilizzo da parte di alcuni artisti visivi come
Tacita Dean,
Henrik HĂĄkansson,
T.J. Wilcox, di una macchina desueta e rumorosa come il proiettore 16mm, marca il ritorno all’onnipresenza della macchina produttrice di immagini. Anche i recenti successi delle pellicole
Control (2007) di
Anton Corbijn,
Le scaphandre et le papillon (2007) di
Julian Schnabel o
Summer Love (2006) di
Piotr Uklanski, sono il segno manifesto di una inversione di tendenza e di un’attenzione reciproca tra le due forme espressive.
In termini generali l’uso diffuso della pellicola nel campo dell’arte contemporanea viene interpretato come un allargamento della pratica creativa ad altri contesti, insieme alla possibilità di riscrivere le regole dell’industria cinematografica, indirizzandola verso lo sviluppo di singoli percorsi di ricerca. Molti progetti filmici recentemente elaborati dagli artisti vanno nella direzione non solo di una riflessione sulle potenzialità estetiche della forma cinema ma rappresentano anche il tentativo di entrare concretamente nelle regole del mercato, rimanendo sempre in una condizione di virtualità creativa che ha le sue radici nell’esperienza cinematografica, con implicazioni di ordine sociale e della dimensione immaginaria.