Adottare il progetto merleau-pontiano di una “
riabilitazione ontologica del sensibile” è l’obiettivo immediatamente chiarito da Carbone e approfondito nei sei capitoli del saggio. Le figure dello schermo e del velo, figure dell’irriducibile dimensione estetica del pensiero, costituiscono la trama di un discorso capace di abbracciare le tematiche che hanno ricorsivamente interessato la storia dell’estetica.
Il tema del velo, che percorre senza soluzione di continuità il dibattito filosofico sullo statuto ontologico e gnoseologico dell’immagine da Platone a oggi, viene recuperato con un esplicito accento nietzscheano: il velo non copre, non occulta la verità, piuttosto sembra costituirne l’unico accesso adeguato, lo schermo capace di renderla visibile. “
Noi non crediamo più che la verità rimanga verità se le si toglie il suo velo”, scrive infatti Merleau-Ponty nel suo ultimo corso, traducendo un passaggio della
Gaia scienza.
Sono sufficienti queste poche premesse per individuare la costellazione di riferimenti all’interno della quale Carbone si muove con estrema agilità: l’estetica fenomenologica da un lato, con una predilezione per Merleau-Ponty, il cui pensiero il nostro autore conosce approfonditamente; dall’altro l’opera degli artisti –
Klee,
Cézanne,
Bacon – e il lavoro del cinema, che hanno alimentato e continuano ad alimentare il dialogo fra arte e teoria. La filosofia non riflette
sull’arte né l’arte riflette una certa filosofia, piuttosto l’una
può pensare vantaggiosamente
secondo l’altra, adottandone la postura e lasciando così accadere quell’ordine di
senso che non esiste preliminarmente nelle cose né nel soggetto e che l’arte
può rendere visibile.
Il paradigma che si viene definendo è un paradigma innanzitutto estetico, laddove è proprio una logica del sensibile – della
carne del visibile, della
sensazione e del
desiderio a seconda che se ne tenti una declinazione rispettivamente merleau-pontiana, deleuziana o lyotardiana – a candidarsi prepotentemente come il luogo dell’apertura del senso e della nostra partecipazione a esso.
Alla luce di questo paradigma, che accomuna con rinnovata forza interpretativa i quadri di Cézanne, di Klee, di Bacon e l’immagine del cinema, è ancora una volta un concetto merleau-pontiano a dimostrarsi particolarmente pregnante: quello di
carne, il cui carattere eminentemente relazionale, la cui apertura all’irriducibilità dello sguardo dell’altro indicano la strada che la filosofia può e deve oggi percorrere.
Nel complesso, quello di Carbone è un testo estremamente chiaro e accessibile anche ai non addetti ai lavori, con un unico limite, forse, quello cioè di restare talvolta imbrigliato in un’architettura troppo didascalica, evenienza peraltro motivata dal contesto nel quale il saggio ha trovato l’inaugurale ispirazione.
Ecco allora che l’obiettivo dichiarato al principio e ribadito fin nelle ultimissime battute, quello cioè di fondare sulla
riabilitazione ontologica del sensibile il progetto di una
filosofia da fare, si presenta più come una profonda e originale discussione della tradizione di pensiero nella quale il saggio esplicitamente si muove piuttosto che come un suo effettivo prolungamento.