Se è vero infatti che l’immagine digitale interpreta in
forme inedite la possibilità di porsi al crocevia tra l’atto di lealtà e la
capacità di deformare dall’interno il reale, allora l’apparentemente ingenua
definizione formulata da André Bazin del cinema come “impronta digitale” [1] della realtà assume, in
regime numerico, un inedito valore semantico e una più articolata attualità, a
patto che la nuova tecnologia cessi di essere valutata esclusivamente come
strumento recante geneticamente inscritta un’istanza dereferenzializzante.
Come ricorda Antonio Somaini, “l’affidabilità delle
immagini digitali non è necessariamente diminuita rispetto all’era
dell’analogico, e del resto alcune delle immagini-sintesi del periodo
predigitale – dal legionario colpito a morte fotografato da Robert Capa [ai] soldati
americani a Iwo Jima […] – rimangono avvolte nel buio» [2]. D’altronde non si
spiegherebbe come mai altrimenti, in forme sempre più diffuse, l’immagine
digitale sia diventata, anche a livello di pratiche sociali, sinonimo di
certificazione e di attestazione di realtà. È ancora Somaini a rimarcare che “il
passaggio dall’analogico al digitale non ha avuto come effetto […] un declino
nella fiducia del valore documentale delle immagini che non cessano di essere
considerate in molti casi come documentazione di fatti realmente accaduti ed
eventualmente come prova” [3]. È così che per la documentazione dei massacri bosniaci è stata
riconosciuta una validità legale al medium video, accreditato quale vera e
propria prova autenticante per determinare e quindi condannare i colpevoli.
Allo stesso modo, più di recente, il famoso caso delle sevizie e delle torture
inflitte dai soldati americani ai prigionieri iracheni di Abu Ghraib è
deflagrato in tutta la sua tragica immediatezza proprio grazie alla
testimonialità delle fotografie digitali, ma anche per merito della loro
semplicità e velocità di diffusione dovuta al fatto che ogni dispositivo di
acquisizione numerica converte le immagini in informazioni che, in quanto tali,
accelerano e amplificano il loro potere comunicativo. La rilevante conseguenza
di tutto ciò (connessa anche con la diffusione capillare dei mezzi di
acquisizione digitale) è, come spiega David N. Rodowick, l’espansione e
l’approfondimento della nostra relazione con il presente attraverso una sua
costante mappatura: come se “ogni individuo del pianeta in grado di
acquistare un dispositivo di acquisizione stesse partecipando collettivamente
ad un progetto di documentazione visiva del nostro presente immediato” [4].
È su questo potere dell’icona numerica, spesso
contrapposto o integrato con quello dell’immagine infografica, che il cinema
contemporaneo ha indirizzato la propria riflessione, mettendo al centro
dell’attenzione, in forme più o meno mediate, la «tangibile pena corporea,
concreta e assoluta»
[5] impostasi con l’“immaginario digitale” esploso insieme agli aerei-kamikaze
l’11 settembre del 2001, quando sugli schermi video di tutto il pianeta si
videro per la prima volta sfilare a ridosso delle torri non ancora crollate i
piccoli puntini neri dei corpi di coloro che si erano disperatamente gettati dalle
finestre dei grattacieli (sulla superficie video tali puntini erano
praticamente coincidenti con i pixel che quelle immagini componevano, finendo
per diventarne la stessa materia costitutiva).
Da Star Wars ad Abu Ghraib, da Jurassic Park alle videodecapitazioni di Al
Qaeda, a continuare caparbiamente a resistere, venendo anzi ulteriormente
rafforzato, è ciò che Raymond Bellour definisce il “demone dell’analogia” [6].
È questo il fascino discreto delle impronte digitali, ossia delle nuove immagini nelle
quali si ibridano antico e moderno, passato
e futuro,
dosati e sintetizzati in una forma capace di attualizzare le potenzialità di
visione di quello “sguardo ossimorico” [7] che Francesco Casetti attribuisce al cinema già come
“occhio del Novecento”, occupato costantemente nel compito primario di
negoziare tra le antinomie del tempo e tra le differenti istanze della
modernità.
[1] Riferendosi in particolare alla fotografia, Bazin
scrive: “L’esistenza dell’oggetto fotografato partecipa […] dell’esistenza
del modello come un’impronta digitale” (A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986, p. 9).
[2] A. Somaini, L’orrore in diretta della guerra, in Reset, n. 100, marzo-aprile 2007, p.
76.
[3] Ib.
[4] D.N. Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale, Olivares, Milano 2008, p. 165.
[5] G. Latini, Forme digitali, Meltemi, Roma 2007, p. 63.
[6] R. Bellour, La doppia elica, in V. Valentini (a cura di), Le
storie del video,
Bulzoni, Roma 2003, pp. 54-55.
[7] F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema,
esperienza, modernità,
Bompiani, Milano 2005, p. 287.
christian uva
la rubrica libri è diretta da marco
enrico giacomelli
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 60. Te l’eri perso? Abbonati!
Impronte
digitali. Il cinema e le sue immagini tra regime fotografico e tecnologia
numerica
Bulzoni,
Roma 2009
Pagg.
178, € 16
ISBN
9788878704152
Info: la scheda dell’editore
[exibart]
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