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20
ottobre 2008
libri_fenomeni Della fierite
Libri ed editoria
Dopo la proliferazione delle Biennali è venuta quelle delle mostre-mercato. Con i conseguenti problemi, domande, questioni. Un tris di volumi affronta altrettanti nodi cruciali. E aiuta chi desidera lavorarci, quelli che vogliono fare acquisti e coloro che si chiedono come reinventarsi...
Son tempi duri per i globetrotter. Se dapprima non pareva vero di poter girare il mondo per Biennali, ora che si sono aggiunte le Fiere la questione diventa spinosa. Non tanto e non solo per ragioni economiche, ma perché il dono dell’ubiquità ancora nessuno l’ha ricevuto. Tocca dunque scegliere. E ogni scelta che si rispetti deve sottostare a criteri operativi. Possono essere della natura più varia, quindi pure consistere nella casualità, nel rispondere agli inviti o nel concedersi la soddisfazione di spuntare l’ennesima città sul proprio personale mappamondo. Oppure, cercare di selezionare gli eventi in base alla qualità. Lasciando al loro posto, per una sorta di deferenza che si deve alle “istituzioni”, le varie Venezia e San Paolo, Basilea e Londra, Madrid e Miami e New York.
Poi che fare? Concentriamoci sulle fiere, mostre-mercato o come le si desidera chiamare. Sono un fenomeno piuttosto recente, almeno dal punto di vista dell’infiammazione denotata dal suffisso -ite. E, come da queste pagine s’è detto più volte dalla penna di Alfredo Sigolo, c’è almeno una questione fondamentale che dovranno presto affrontare: quella relativa al ruolo rivestito dalle case d’aste. Non staremo a ripetere gli esempi di François Pinault proprietario di Christie’s, a sua volta proprietaria di Haunch of Venison, o dei tentacolari possedimenti di Charles Saatchi e dei suoi accordi con Phillip’s de Pury.
Fatto sta che gli attori del mercato si muovono, e pure velocemente (c’è pure chi colleziona fiere, nel senso che se le compra, come Merchandise Mart Properties). E le case d’asta potrebbero contribuire alla “trasparenza e pubblicità dei prezzi” in fiera, parafrasando quanto scrive Miriam Di Penta nell’introduzione alla sezione dedicata al Mercato dell’arte del volume I mestieri dell’Arte. Sezione che, con sommo nostro stupore, non contempla alcun intervento focalizzato sulle fiere, checché Di Penta ne accenni nel suo scritto, citando Tefaf e Biennale di Firenze, Frieze la “modaiola” e l’“intramontabile” ArtBasel col “suo doppio americano di Miami”. Mentre hanno voce sia Sotheby’s, nella persona di Flaminia Allvin (che avrà fatto rizzare i capelli a più d’un collezionista e d’un superiore scrivendo che “il mercato dell’arte, come tutti i mercati può essere soggetto a fluttuazioni, questo è un momento incredibilmente prosperoso per questo mercato e speriamo che duri, ma nessuno di noi può conoscere bene il futuro”: si sa ma non si dice), che Marco Riccomini, sul fronte dei dipinti antichi da Christie’s, il quale si unisce al coro sottolineando come “i risultati d’asta restano, poiché pubblici, i punti di riferimento più attendibili” per la stima di un’opera.
Tutto questo sul lato commerciale. Ma è innegabile che almeno alcune fiere da qualche tempo pigiano sul tasto della cultura. In ordine sparso, le scolaresche ad Arco, lo stand di Abo a Bologna, Andrea Bellini che dirige Artissima, Keller che ad ArtBasel depenna la parola “fair”. Ed è così che si fa strada una sorta di ibrido avveniristico, il fair curator. Ne parla diffusamente Paco Barragán nel suo libro anglo-spagnolo; un libro aggiornatissimo, dalla folta bibliografia, chiaro e al contempo colto. (Solo non capiamo che c’azzecca il capitolo The Advent of Expanded Painting.) Il suo è un tipo particolare di curatore, che magari “incoraggia le gallerie a presentare i propri stand in maniera che siano più simili a una mostra piuttosto che a un’accozzaglia [qui la traduzione è libera, N.d.R.] di lavori di tutti gli artisti della galleria”, come scrive Amanda Coulson, direttore esecutivo di Volta, fiera itinerante dove gli stand sono per lo più delle minipersonali.
Un curatore embedded in fiere che spesso hanno assunto lo status di Urban Entertainment Center (una sorta di Guggenheim di Bilbao per qualche giorno all’anno) e dove si offrono “esperienze memorabili” (il riferimento è alla Experience Economy teorizzata alla Harvard Business School). Tutto per migliorare il posizionamento, ovvio. In pratica? Molti sono i consigli di Barragán rivolti a curatori di tal fatta, che se sono coinvolti almeno a livello di comitato selezionatore è senz’altro meglio: rendere l’evento più “intimo”, il che significa in primis ridurre il numero di gallerie partecipanti (l’esempio torinese torna alla mente con insistenza); adoperarsi per divenire un ottimo “infomediatore”, che non è il “filippino dell’arte” – Abo dixit – bensì colui che “genera, gestisce e distribuisce l’informazione indiscriminatamente attraverso i vari canali che intervengono nel processo”, un curatore relazionale insomma; esser disposti a impegnarsi in operazioni di instant curating, che significa “concettualizzazione, selezione, produzione, esposizione, inaugurazione e interazione sociale”, naturalmente tutto “compresso in un solo giorno”. Qui ci fermiamo, ché chi è interessato può pure andar direttamente al decalogo di Barragán. Un dubbio sorge: perché mai il fair curator sarebbe garanzia di trasparenza? Mentre nessun tentennamento abbiamo nel supportare la necessità in fiera di una migliore architettura e di “fast good” (copyright Ferran Adrià).
Di decaloghi ce n’è un altro paio in The Art Fair Age, e sono le Rules of Collecting e la Guide to Finding a Good Advisor. Non che non siano interessanti, ma almeno vanno affiancati al corposo volume di Louisa Buck e Judith Greer, coppia di “addette ai lavori” ma soprattutto legate strettamente al mondo del collezionismo. Un volume che, in quell’avverbio iniziale del titolo, Come comprare l’arte contemporanea, indica già tutto il suo potenziale valore. Al cosa, infatti, ci si può pensare con maggior calma, o abbandonandosi a un raptus di shoppingite.
Poi che fare? Concentriamoci sulle fiere, mostre-mercato o come le si desidera chiamare. Sono un fenomeno piuttosto recente, almeno dal punto di vista dell’infiammazione denotata dal suffisso -ite. E, come da queste pagine s’è detto più volte dalla penna di Alfredo Sigolo, c’è almeno una questione fondamentale che dovranno presto affrontare: quella relativa al ruolo rivestito dalle case d’aste. Non staremo a ripetere gli esempi di François Pinault proprietario di Christie’s, a sua volta proprietaria di Haunch of Venison, o dei tentacolari possedimenti di Charles Saatchi e dei suoi accordi con Phillip’s de Pury.
Fatto sta che gli attori del mercato si muovono, e pure velocemente (c’è pure chi colleziona fiere, nel senso che se le compra, come Merchandise Mart Properties). E le case d’asta potrebbero contribuire alla “trasparenza e pubblicità dei prezzi” in fiera, parafrasando quanto scrive Miriam Di Penta nell’introduzione alla sezione dedicata al Mercato dell’arte del volume I mestieri dell’Arte. Sezione che, con sommo nostro stupore, non contempla alcun intervento focalizzato sulle fiere, checché Di Penta ne accenni nel suo scritto, citando Tefaf e Biennale di Firenze, Frieze la “modaiola” e l’“intramontabile” ArtBasel col “suo doppio americano di Miami”. Mentre hanno voce sia Sotheby’s, nella persona di Flaminia Allvin (che avrà fatto rizzare i capelli a più d’un collezionista e d’un superiore scrivendo che “il mercato dell’arte, come tutti i mercati può essere soggetto a fluttuazioni, questo è un momento incredibilmente prosperoso per questo mercato e speriamo che duri, ma nessuno di noi può conoscere bene il futuro”: si sa ma non si dice), che Marco Riccomini, sul fronte dei dipinti antichi da Christie’s, il quale si unisce al coro sottolineando come “i risultati d’asta restano, poiché pubblici, i punti di riferimento più attendibili” per la stima di un’opera.
Tutto questo sul lato commerciale. Ma è innegabile che almeno alcune fiere da qualche tempo pigiano sul tasto della cultura. In ordine sparso, le scolaresche ad Arco, lo stand di Abo a Bologna, Andrea Bellini che dirige Artissima, Keller che ad ArtBasel depenna la parola “fair”. Ed è così che si fa strada una sorta di ibrido avveniristico, il fair curator. Ne parla diffusamente Paco Barragán nel suo libro anglo-spagnolo; un libro aggiornatissimo, dalla folta bibliografia, chiaro e al contempo colto. (Solo non capiamo che c’azzecca il capitolo The Advent of Expanded Painting.) Il suo è un tipo particolare di curatore, che magari “incoraggia le gallerie a presentare i propri stand in maniera che siano più simili a una mostra piuttosto che a un’accozzaglia [qui la traduzione è libera, N.d.R.] di lavori di tutti gli artisti della galleria”, come scrive Amanda Coulson, direttore esecutivo di Volta, fiera itinerante dove gli stand sono per lo più delle minipersonali.
Un curatore embedded in fiere che spesso hanno assunto lo status di Urban Entertainment Center (una sorta di Guggenheim di Bilbao per qualche giorno all’anno) e dove si offrono “esperienze memorabili” (il riferimento è alla Experience Economy teorizzata alla Harvard Business School). Tutto per migliorare il posizionamento, ovvio. In pratica? Molti sono i consigli di Barragán rivolti a curatori di tal fatta, che se sono coinvolti almeno a livello di comitato selezionatore è senz’altro meglio: rendere l’evento più “intimo”, il che significa in primis ridurre il numero di gallerie partecipanti (l’esempio torinese torna alla mente con insistenza); adoperarsi per divenire un ottimo “infomediatore”, che non è il “filippino dell’arte” – Abo dixit – bensì colui che “genera, gestisce e distribuisce l’informazione indiscriminatamente attraverso i vari canali che intervengono nel processo”, un curatore relazionale insomma; esser disposti a impegnarsi in operazioni di instant curating, che significa “concettualizzazione, selezione, produzione, esposizione, inaugurazione e interazione sociale”, naturalmente tutto “compresso in un solo giorno”. Qui ci fermiamo, ché chi è interessato può pure andar direttamente al decalogo di Barragán. Un dubbio sorge: perché mai il fair curator sarebbe garanzia di trasparenza? Mentre nessun tentennamento abbiamo nel supportare la necessità in fiera di una migliore architettura e di “fast good” (copyright Ferran Adrià).
Di decaloghi ce n’è un altro paio in The Art Fair Age, e sono le Rules of Collecting e la Guide to Finding a Good Advisor. Non che non siano interessanti, ma almeno vanno affiancati al corposo volume di Louisa Buck e Judith Greer, coppia di “addette ai lavori” ma soprattutto legate strettamente al mondo del collezionismo. Un volume che, in quell’avverbio iniziale del titolo, Come comprare l’arte contemporanea, indica già tutto il suo potenziale valore. Al cosa, infatti, ci si può pensare con maggior calma, o abbandonandosi a un raptus di shoppingite.
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Lo slittamento del mercato
marco enrico giacomelli
I volumi segnalati…
Paco Barragán, The Art Fair Age / La era de las ferias, Charta, pp. 100+100, € 29
Louisa Buck & Judith Greer, Come comprare l’arte contemporanea, Allemandi, pp. 303, € 27
Caterina Volpi (a cura di), I mestieri dell’Arte, Electa, pp. 224, € 25
…e se non vi accontentate
Don Thompson, The $12 Million Stuffed Shark. The Curious Economics of Contemporary Art, Aurum Press, pp. 304, £ 14,99
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 52. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]