La fotografia non può essere definita
contemporanea senza entrare rudemente in un fascio di complesse questioni teoriche – e ottiche, fisiche e chimiche, finanche oniriche. Partiamo da quest’ultimo aspetto grazie al recente libro di Italo Zannier, dedicato al
sogno della fotografia. Una raccolta di saggi che prendono avvio dall’invenzione di
Daguerre e
Talbot, però non al fine di stilare l’ennesima storia della fotografia, bensì per aggirarsi sulla soglia dell’
“Epoca dell’Iconismo”. I vari
Niépce,
Bayard,
Hercules Florence,
Marco Antonio Cellio,
Wollaston,
Tito Puliti,
Moser, risalendo fino a
Tiphaine de la Roche ed
Emanuel Panselinos, godono così d’un novello o primo attimo di celebrità. D’altro canto,
sfocare l’origine d’una storia è un’operazione che ha il pregio di scalfire facili linearità, dando voce a prospettive multiple, talora inattese, comunque utili per ri-leggere la fotografia di questo XXI secolo.
Zannier chiama inevitabilmente in causa la questione di realtà e rappresentazione –simulacrale, finzionale ecc.– citando il
Discorso sull’arte fotografica di
Gio Ponti, ove già si comprendeva che l’
“aberrazione” fotografica stava diventando (la) realtà. Un gioco di specchi del quale s’intendeva senz’altro un fotografo amatoriale chiamato
Lewis Carroll. I suoi scritti sulla e a partire dalla fotografia sono ora tradotti e corredati da un saggio di
Brassaï. Vi leggiamo di altri sogni, come quello di un’
“applicazione della fotografia ai processi mentali”, oppure seriose co
nsiderazioni incastonate in brevi
divertissement:
“Dicono che noi fotografi siamo, nel migliore dei casi, una razza di ciechi”.
Il suo è però un caso in cui le attività di fotografo e scrittore paiono piuttosto ben distinte (anche se certe scene di Alice messe a confronto con le
“ninfette” ritratte in
deshabillé potrebbero far scrivere parecchio a un buon psicoanalista). Tutt’altro discorso vale per
Medardo Rosso. A lungo s’è sostenuto che, dai primi anni del XX secolo, avesse perduto il contatto con le cose e si limitasse alla ri-produzione. Per scardinare tale lettura, il prezioso libro di Paola Mola si concentra sul mezzo fotografico, il cui utilizzo da parte di Rosso è d’una maturità sconcertante. L’invito è a osservare con attenzione le fotografie di fotografie, ad esempio, coinvolte in un processo vorticoso che si ripete e affina da Milano a Parigi, dove la sperimentazione prosegue fors’anche grazie all’apparecchio donatogli da
Degas. Ancora una volta, si tratta di una fotografia che non in-tende raffigurare la realtà, ma essere oggetto
originale, fino a perdere di vista il referente materiale
originario. Strumento dalle potenzialità sconfinate, e pertanto assai pericoloso:
“La fotografia come invenzione è cosa enorme – ma per il vedere è il più terribile male”.
Estremamente utile per approfondire il discorso sullo sguardo e la visione è il saggio di Maria Giulia Dondero. Perché riflette su coloro i quali
fotografano l’invisibile nella sua accezione sacrale, dove “sacro” non è mero sinonimo di “religioso”. Un solido impianto teorico -nel quale spiccano Greimas e Floch
oltre Benjamin- consente alla studiosa d’imbastire un’originale ricerca sulle tracce di
Taylor-Wood,
Pierre et Gilles,
Richon,
Saudek,
Michals,
Witkin e
Sekula. Per giungere alla conclusione, qui sintetizzata al limite dell’ingenerosità, che
“è come se la foto ribadisse costantemente un’interruzione di trasmissione, un processo ‘mascherato’ inviolabile allo sguardo”.
Da un lato, l’automatismo della meccanica fotografica; dall’altro, la versatilità di uno strumento che non lo limita alla registrazione del fatto visivo. Sono due corni di una scena originaria che è stata già oggetto della riflessione trentennale di
Man Ray, i cui scritti in merito sono raccolti per le cure di Janus. Una riflessione che evolve parallelamente allo sviluppo tecnico e artistico del mezzo, nonché dell’approccio a esso. Ciò che costituisce il
fil rouge è però la consapevolezza che la fotografia costituisce uno fra i sintomi più palesi della detronizzazione dell’Arte con la maiuscola. In questo senso va letta l’affermazione
“la fotografia non è Arte” e la complementare
“è l’uomo, qualunque sia lo strumento che usa, a creare l’opera d’arte”. Cosicché, da una parte la differenza tra
“fare” e
“riprendere” un’immagine è transmediale, dall’altra solo un’indomita altezzosità dell’Arte può condannare il
côté “utilitaristico” di certa fotografia -un esempio fra molti possibili: l’affascinante volume di
Fulvio Bernacchioni– e di certa pittura. Poiché
“è vero che non si vive di solo pane, ma non possiamo neppure vivere di soli biscotti”.