La fotografia reca con sé ancora irrisolto, e irrisolvibile
forse, un numero non enorme di questioni, un numero inversamente proporzionale
alla loro complessità. E col tempo le cose non si sono semplificate. Ad
esempio: il problema della proto-fotografia era
fissare l’immagine; quello del proto-cinema fluidificarla. E col digitale? Beh, i succitati problemi fondativi
e fondanti si trovano in un’impasse
se si pensa che il refresh d’un monitor è invariante rispetto al fatto che “su”
di esso sia visibile un’immagine statica o in movimento. Lo schermo tremola
sempre alla medesima frequenza, troppo mosso per la fotografia, troppo statico
per il cinema.In filosofia – ma è un metodo che andrebbe adottato in
generale – si consiglia, nel caso in cui ci si trovi di fronte a un problema di
cui non s’intravede la soluzione, di fare un passo (mentale) indietro. Così ha
fatto Jean-Christophe Bailly, l’autore di questo libro difficile e
affascinante: ha preso a guardare con una certa insistenza due fotografie. La
prima è
The Haystack (covone che richiamerà,
va da sé, gli omologhi di Monet), un calotipo pubblicato da
William
Henry Fox Talbot nel suo The Pencil of
Nature (1844); la seconda è stata scattata nel 1945 da un anonimo
appartenente all’esercito statunitense nel 1945 e si “intitola”
La scala e l’ombra
detta di Hiroshima (ce ne sarebbe pure una
terza, anzi una seconda bis, ancora con una scala e un essere umano, entrambe
ombre però, conservata al Museo della bomba atomica di Nagasaki).Sintetizzare cosa ne è venuto fuori è impossibile. Poiché il
“
racconto” di Bailly ha le maglie
strette, cosicché saltare anche solo un paio di passaggi del ragionamento
farebbe crollare l’intero castello riflessivo. È possibile invece estrarne
alcune tesi apodittiche, rendere alcuni gangli degli aforismi su cui riflettere,
magari tradendo proficuamente il testo di Bailly.La calotipia, checché ne dicesse – o si voglia far dire a –
Benjamin, non indebolisce l’immagine, la dilata. La rende una cartolina
potenziale, e del peso enorme di questi “manufatti” ha parlato recentemente
anche Tony Godfrey in
Painting Today.
Restando in aria di tangenze foto-pittoriche (anzi, disegnative): tutti
conoscono il “mito” della figlia di Butade, del suo amante e della sua ombra,
della skiagraphia. Un gesto “che
rappresenta dunque per sempre l’origine della rappresentazione figurata,
prefigura anche il fotografico: è la ‘matita della natura’ che disegna l’ombra”, e non v’è ombra senza luce, senza phòs. Al punto che si potrebbero ribaltare i termini
della questione e dire che la fotografia è “un precipitato
dell’immagine” (e il ready made “un’iperimmagine
che sfocia nella parusia di un volume”).