È un personaggio quasi mitico Ando Gilardi. Ha fondato la
Fototeca storica nazionale e ha scritto libri sempre accattivanti nei titoli e
puntuali nei contenuti: da
Wanted!, dedicato alla fotografia criminale, alla
Storia
sociale della fotografia e
alla
Storia della fotografia pornografica (tutti editi o riediti da Bruno Mondadori).
Se finora aveva sondato con coraggio i “margini” della
critica fotografica, con questo
Lo specchio della memoria. Fotografia spontanea
dalla Shoah a YouTube Gilardi si avventura in una terra non tanto inesplorata quanto inesplorabile.
Con la convinzione che l’indicibile può esser mostrato nella maniera più
indicale possibile, e in tal modo presentare i fatti, nudi e crudi, senza commenti
e senza timore d’incorrere nella
vexata quæstio dell’obiettività dell’obiettivo.
Potrebbe sembrare ingenuo, e superficiale: è mai possibile
che un soggetto riesca a scavalcare d’un balzo tutta la riflessione su verità e
rappresentazione? Ebbene sì. Se in molti casi esiste un limite al quale ci si
avvicina soltanto, senza poterlo mai tangere, lo sterminio
industrializzato del popolo ebraico progettato e
iniziato dai nazisti quel limite l’ha infranto.
Vi sono eventi, pochi, pochissimi, che causano non solo e
non tanto rotture epistemologiche – da qui in poi nulla sarà più come prima,
s’è detto per esempio dell’11 settembre 2001 – ma autentiche sospensioni
del/nel corso della storia umana.
Ciò non significa che siano d’ordine
metafisico; che non sia possibile riflettere su quanto è avvenuto. Il discorso
è un altro: essi rappresentano nodi da affrontare con strumenti totalmente
particolari. E può capitare, come in questo caso, che l’immagine, l’abusata
immagine, la campionessa e l’icona della società dello spettacolo, che
l’immagine torni a essere ciò che forse era qualche secolo fa. Qualcosa che
incute un timore reverenziale assolutamente non razionalizzabile. Qualcosa che
attraversa come un dardo ogni genere di resistenza, per colpire al cuore dell’evidenza.
Attenzione: non si tratta d’irrazionalità né di miracolo; si tratta d’un altro
piano di funzionamento del cervello, al di là di ragioni strumentali e ciniche.
Perciò non si può rimproverare a Gilardi d’aver scritto un
libro disorganico, non-lineare, con rimandi e riferimenti che s’incrociano, e
citazioni che tornano due, tre volte, e didascalie che sono più lunghe del
testo che illustrano. E prefazioni scritte quarant’anni prima del libro, e
appendici scritte altri venti, venticinque anni prima.
Tutto ciò non significa, lo ripetiamo, che sia impossibile
capire, e impedire che succeda di nuovo. Ma è un passo che viene dopo, dopo una
decantazione che non si può negare a chi s’imbatte, magari per la prima volta,
nella “soluzione finale”. E lo dimostrano le interviste che corredano il
volume.
“
Alzare o non alzare la macchina fotografica perché la
verità si specchi in essa, indiscutibilmente, è una scelta morale”, scriveva Gilardi nel 1968. È
stata la scelta di coloro i quali – come il non meglio identificato Alex,
insieme a Wilhelm Brasse, Mendel Grosman, Henryk Ross, Gianfranco Ucelli, Roman
Vishniac – temevano che mai si sarebbe creduto a quant’era avvenuto, se non ci
fossero state le immagini. E lascia di stucco che la stessa logica obversa e
perversa sia alla base di quegli scatti, tanti, realizzati da chi lo sterminio
lo stava praticando.