Benché la fotografia sia da anni (forse proprio dalla sua nascita) nel bel mezzo di una
querelle tra chi la considera parte integrante e indissolubile delle arti visive e chi la vorrebbe autonoma e indipendente, essa non ha affatto esaurito l’interesse del pubblico nei suoi confronti.
Non solo grazie alle inchieste giornalistiche e ai reportage che le accompagnano, ma dilagando tra vecchi e nuovi mezzi di comunicazione, la fotografia si è imposta come veicolo di comunicazione preciso e autentico, capace di vivere (e non di sopravvivere) nell’epoca delle immagini in movimento. E di
fotografia e movimento si parla nello stimolante saggio di Pier Francesco Frillici, da poco uscito per l’Editrice Quinlan, che pare confermarsi come editore di ricerca con notevoli spunti d’interesse.
Un moto, quello che sta alla base di tutto il saggio, da intendersi come
moto a luogo, viaggio, spostamento. Per questo, e per focalizzare l’attenzione sui protagonisti del volume, può forse essere utile citare il sottotitolo:
L’odissea fotografica di Walker Evans, Robert Frank e Lee Friedlander. Se non è necessario sdoganare la ricerca fotografica (o, sarebbe meglio dire, artistica) dei tre compagni di ventura dell’autore, è assolutamente necessario, in un solo colpo, ripescarli da un ambito -quello fotografico- che gli sta così stretto, per inserirli nella ben più ampia storia dell’arte e ridare al termine reportage la varietà di significati negatagli dal precipuo uso giornalistico. Perché nell’itinerario pennellato da Frillici si inneggia all’“
antireportage dentro il reportage, che poi significa in realtà antiaccademismo, come appunto ogni avanguardia ha insegnato e insegna”, come scrive nella prefazione Elio Graziol.
Così
Evans, oltre che straordinario “
incorniciatore” di scorci paesaggistici, si scopre essere febbrile collezionista d’oggetti e si trova a coniugare il tutto con una non ben nascosta “
vocazione surrealista”. Allo stesso tempo,
Frank impersona, e fotografa, i luoghi e i momenti dell’America
on the road, che tanto rese noto Jack Kerouac. La tendenza all’istantanea, al rubare l’attimo a quel tempo che passa sempre così inesorabile, lo spinge da una parte all’azione (o, meglio, alla sintesi di un’azione) e dall’altra all’improvvisazione, tanto da rendere quasi automatica l’analogia con il jazz. E, infine, l’analisi dell’immagine fotografica di
Friedlander, diretta concorrente di operazioni analoghe (come quelle di
Mulas e
Patella), ripiegata su se stessa, ma aperta alla riscoperta di quello che si definisce inconscio tecnologico del mezzo.
Tre grandissimi autori presi in prestito alla fotografia per sviscerarne una volta di più le aderenze con la storia dell’arte del Novecento. Tre pretesti d’indagine per altrettanti momenti culturali ancora da sondare.