Un ricordo di Goffredo Fofi, risalente al 1955, apre il libro. Il protagonista è Enzo Sellerio, che semplicemente comincia a fotografare la realtà siciliana. Un fatto che può apparire banale, ma che segna una svolta nella storia della fotografia italiana. Non certo per il Sud stereotipato che si è soliti immaginare, poiché lo stesso Fofi sottolinea che il Sud è anche e soprattutto “uno stato mentale”. In realtà, gli scatti realizzati al Sud -scriveva Sellerio nel 1996- sono frutto del “fugace accoppiarsi del documento con la memoria”. Un rapporto che viene ribadito da altri intervistati, per esempio Luciano D’Alessandro, che parla della “memoria amara” di Napoli, o Marialba Russo, che riflette sulla capacità compensatoria della fotografia in rapporto alla memoria.
Il libro raccoglie alcune conversazioni realizzate nel 1998, con fotografi che nel Sud sono rimasti, oppure che sono emigrati per poi tornarci, o ancora con artisti che -in controtendenza- vi si sono trasferiti da altre zone dell’Italia. Il tema centrale, spiega la curatrice, è il “racconto fotografico che vuole rintracciare il filo -o almeno uno dei fili- della trama dei racconti del sud Italia”, un Sud che ha i suoi centri propulsori in Napoli e Palermo, e che sviluppa un approccio antropologico alla fotografia, socialmente caratterizzato e schierato.
Così Mimmo Jodice -concentrandosi su una Napoli “città degli eccessi e dei forti contrasti”, “un corpo vivo e mutevole”– dichiara che la fotografia “educa a guardare e a riscoprire il mondo che ci circonda”. Antonio Biasucci si accoda nel sottolineare il carattere sociale della fotografia nel Sud, ma sottolineando al contempo la necessità di un “distacco” dal sapore brechtiano. Un immigrato al Sud, Mario Cresci, in una delle interviste più interessanti del libro insieme a quella con Ferdinando Scianna, sottolinea il fatto che si tratta di un “luogo antropologico”. Cresci ricorda come al Sud dominasse un atteggiamento di marca crociana all’estetica, mentre il gruppo di ricercatori con cui collabora -formati alla fenomenologia di Merleau-Ponty e alla psicologia della visione di Arnheim– diede una scossa a tale approccio, spostandosi dall’estetica “pura” a un taglio differente, incentrato sull’“uomo attraverso le cose, la sua cultura materiale, la sua vita, il suo lavoro”.
Un secondo tema importante del libro è offerto da Biasucci, che ricorda come “fotografare Napoli [sia] un’altra utopia: la città riesci appena a intravederla”. È un’immagine che si discosta nettamente dal modello di Sud che si è usi a immaginare. Così Mimmo Jodice svuota Napoli dalle persone per evidenziarne l’aspetto melanconico, aldilà dello stereotipo di una città chiassosa e spensierata.
Queste due direttrici principali sono d’altra parte ancora ben presenti nel lavoro di fotografi, soprattutto campani, di una o due generazioni successive, da Mario Spada a Renato Barbato passando per Claudio Sabatino. Per una storia che prosegue nel presente. Con ottimi risultati.
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marco enrico giacomelli
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il libro dimentica il contributo fotografico di Raffaela Mariniello? o lo dimentica l'articolista?
saluti
n a m e l e s s
caro nameless,
nessuno dei due lo dimentica. ma la curatrice del volume immagino abbia dovuto operare una scelta. e l'articolista (?) pure. comunque l'elenco delle interviste è indicato nella scheda al fondo della recensione.
saluti,
marco