Quali sono le ragioni di questa evoluzione, secondo te?
Uno dei motivi, forse il principale, è che i mondi virtuali hanno un carattere prevalentemente visivo, privilegiano la dimensione dell’immagine, e per questa ragione ribaltano repentinamente la logica fredda del codice. I mondi virtuali rappresentano una rivoluzione copernicana in cui si passa da una comunicazione fredda, che nel mio immaginario è datata e si lega per esempio ai concerti dei Kraftwerk degli anni ’80, a una comunicazione calda, sentimentale. Nonostante ciò, questo concetto non è ancora filtrato, e qualcuno continua a parlare di tecnologia fredda, anche quando si tratta di mondi virtuali, inanellando una serie di luoghi comuni.
A proposito di “fredda logica del codice”, Lev Manovich qualche anno fa scriveva provocatoriamente che il vero artista dell’era digitale è il programmatore e che la vera opera d’arte è Photoshop (dunque il software), e non il prodotto che l’utente realizza grazie a esso. La stessa posizione si può ritrovare, anche se con sfumature diverse, in altri autori chiave del pensiero digitale degli ultimi anni, da Matthew Fuller a Katherin Hayles, passando per Ian Bogost e Florian Cramer, sostenitori in diversa misura di quel materialismo digitale che vede l’atto di programmare il computer come il momento davvero creativo del rapporto con i nuovi media. D’altronde, tutte le principali correnti artistiche legate all’utilizzo di Internet, dalla net art degli anni ‘90 alla software art più recente, sono legate a questa concezione. Come ti poni nei confronti di queste posizioni? Che cosa è cambiato con lo sviluppo dei mondi virtuali come Second Life a livello di pratiche artistiche?
Questo discorso vale se si fa riferimento ai protagonisti della net art, ai maestri accreditati e agli artisti che giocano a reinventare i linguaggi. Le loro esperienze e le loro sperimentazioni sono estremamente interessanti, ma non esauriscono le potenzialità offerte all’arte dai mondi virtuali e dai social network, dove si stanno facendo strada centinaia di artisti autodidatti che spesso non sanno nulla della net art. Questi personaggi appartengono a un nuovo tipo di cultura artistica, generata dal basso, e possono essere visti come i pittori naïf del terzo millennio, come degli illustratori di genio o semplicemente come sperimentatori inconsapevoli. Ritengo che la loro arte sia estremamente interessante per vari motivi. Innanzitutto perché metabolizza la street culture contemporanea e la miscela con le suggestioni che arrivano dalle riorganizzazioni sociali casuali e non del web. Poi perché rappresentano la vera novità dell’arte del nostro tempo: sono opere frutto di una cultura partecipatoria più articolate e complesse di quanto sembrino. Faccio un esempio: pensiamo al classico ritratto di un avatar di Second Life. Chi realizza questi ritratti e li presenta su Flickr lavora sempre su un doppio registro: da un lato crea un’opera attraente, ma al contempo cerca di definire a priori una serie di dettagli che possano provocare un commento da parte degli utenti, al fine di sviluppare delle relazioni. Ancora una volta, l’opera non è fine a se stessa ma si apre realmente all’osservatore, coinvolgendolo attivamente. Prendono vita delle opere d’arte open source, potenzialmente modificabili. E mi sembra che questo concetto meriti una certa attenzione.
Open source e inter-operabilità sono le parole chiave di questi anni, e in effetti tutte le conseguenze di questo fondamentale rivolgimento costituiscono l’oggetto del mio libro. Soprattutto attraverso le interviste a una serie di personaggi di riferimento, cerco di delineare uno scenario complesso, che non si può sintetizzare in poche righe. In ogni caso, possiamo dire che al centro di questa rivoluzione c’è l’avatar, che acquisterà sempre più rilevanza e diventerà sempre più il nostro alter ego, con un’identità propria. Nel giro di pochi anni con il nostro avatar ci sposteremo da un mondo all’altro, e grazie a lui andremo virtualmente anche in luoghi della realtà dove non abbiamo voglia o tempo di andare di persona (in un camerino a provare un paio di jeans come a una riunione d’affari in un ufficio fuori mano); l’avatar diventerà anche un personaggio di primo piano, sfuggendo progressivamente all’idea di surrogato della persona che ne muove i fili. Si stanno già girando dei film in Second Life e il nuovo marketing contempla ormai un avatar branding a 360°, che consiste nel far muovere il proprio avatar sui vari scacchieri dei social network: prima l’avatar deve diventare famoso in SL, poi lo si fa conoscere anche altrove, magari in Linkedin e in Facebook; per poi passare al terzo livello, l’integrazione con la realtà. In effetti, il traguardo finale è proprio questo, la caduta definitiva della barriera tra virtuale e reale. E attenzione, non si tratta di un percorso a senso unico, non si va solo dal virtuale verso il reale. Come sappiamo, c’è molto traffico anche nella direzione opposta, quella della virtualizzazione della realtà.
In Rinascimento virtuale metti spesso l’accento sul lato relazionale di Second Life e affini, e sottolinei come l’utente condivida prima di tutto uno spazio sociale, in cui gli oggetti che vengono creati sono in primo luogo simboli che raccontano delle storie. In questo senso, potremmo vedere Second Life come un universo narrativo: tante microstorie personali che intersecandosi vanno a formare quel macroracconto più o meno consapevole che costituisce una nuova narrazione di tipo collaborativo. È così? E chi leggerà questa storia in futuro?
Vorrei chiudere tornando per un momento al concetto di avatar e alla sua metamorfosi. Il web 2.0, con il proliferare dei social network e la crescita dei mondi virtuali, rappresenta anche un passaggio a una nuova età del concetto di avatar e di personalità in rete: mi sembra che se prima i nostri alter ego digitali avessero come scopo primario il farsi protesi simbolica di una nostra presenza, ora siano divenuti quasi più importanti della stessa persona reale che rappresentano. Inoltre, spesso la nostra attività sociale sul web è motivata da una ossessiva brama di popolarità, che produce relazioni deboli e poco durature. Che ne pensi?
Come dicevo, penso che l’avatar si staccherà progressivamente dall’identità della persona cui fa riferimento per assumere sempre più una personalità propria. Adesso quando si parla di avatar si evoca inevitabilmente il concetto di alter ego, di personaggino di pixel, di figurina da cartone animato. Credo che si debbano superare ancora delle paure, dei timori che ci portano a relegare l’avatar in una dimensione pseudo-ludica. Poi, una volta che l’avatar si sarà veramente affrancato, non si parlerà più di protesi, ma di personaggi autonomi, e tutto questo, a medio termine, credo che andrà di pari passo con il grosso discorso dell’intelligenza artificiale: avatar e intelligenza artificiale potrebbero essere un connubio esplosivo, la coppia del nuovo millennio. Per quanto riguarda la brama di popolarità, credo sia un fenomeno legato all’infanzia dei social network. Adesso che siamo agli esordi di queste nuove forme di relazioni, si tende a esagerare, a usare questo strumento in modo indiscriminato. Col tempo impareremo a usarli con maggior discrezione.
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a cura di cristiano poian
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 50. Te l’eri perso? Abbonati!
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