“
Canova è morto; e tutte le arti si rinnovano […]. Quel diavolo che ha fatto questa musica [Rossini, N.d.R.], ha sfidato il passato che pareva insuperabile, e ha vinto. Tutta Milano è sottosopra […] Hayez quest’anno ha trionfato nelle sale di Brera, e lasciando l’antichità, ha fatto il suo ingresso nel Medioevo”. Con queste parole rivolte allo scultore Pompeo Marchesi, Giulio Baroggi, il protagonista dei
Cento anni di Giuseppe Rovani, si fa interprete del cambiamento dei tempi. Un cambiamento epocale che ha come sfondo una Milano che, da capitale dell’algido neoclassicismo durante il Regno d’Italia grazie all’opera di artisti quali
Appiani e
Bossi, nel Lombardo-Veneto asburgico si accinge a diventare il centro propulsore dell’estetica romantica e risorgimentale. Quadro simbolo di tale rivoluzione, che avviene a parole con
Il Giuramento di Pontida di Berchet e le tragedie di Manzoni, è il
Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri (1818) di
Francesco Hayez.
Gli anni dal 1775 al 1880 sono di grande trasformazione. Soprattutto in Lombardia, che s’impone come il motore della nascente Italia, laboratorio in cui si mischiano alchemicamente gli elementi della rivoluzione industriale e si ottengono gli esiti più avanzati a tutti i livelli: politico, letterario, musicale, artistico. Di questi decenni formidabili si occupa il bel volume
Ottocento lombardo. Arti e decorazioni, ben curato da Fernando Mazzocca.
Fra i tanti percorsi del libro -suddiviso in tre tranche: Neoclassicismo, Romanticismo, Scapigliatura- interessanti appaiono quelli dedicati al periodo romantico, che coincide con l’inizio del nostro Risorgimento e con la creazione di un’identità nazionale comune. Apostolo del Romanticismo storico fu Hayez, che contribuì non poco a plasmare l’immaginario collettivo. Per lui il Medioevo, culla dell’identità italiana, fu fonte di episodi che, trovando corrispondenza con l’attualità, risvegliavano la coscienza nazionale. Il suo
Pietro l’eremita predica la Crociata (1827-29), che anticipa di sedici anni il clima de
I Lombardi (1843) di Giuseppe Verdi, è lavoro che metaforicamente -per evitare la censura- richiamava alla “guerra santa” contro lo straniero invasore. E i giovani cospiratori de
La congiura dei Lampugnani (1826-9) sono archetipi della gioventù carbonara.
La sua visione, prevalente, non fu però l’unica.
Giuseppe Molteni diede volto nei ritratti di borghesi e intellettuali ad una società in evoluzione e ricca di aspettative.
Lui e Hayez combatterono dure battaglie a colpi di pennello fra le mura dell’Accademia di Brera, che visse anni d’oro grazie alle tenzoni tra
Massimo d’Azeglio, dominatore del genere del paesaggio “istoriato” e patriottico (
La battaglia di Legnano,
La disfida di Barletta), e
Giuseppe Canella, che si impose col suo vedutismo sentimentale; e vide con gli
Induno e
Angelo Inganni l’affermazione di generi “minori” come il vedutismo urbano.
Imperdibile la trattazione dei due cimiteri monumentali di Brescia e Milano. Antologie
en plein air della scultura coeva (in cui si distinguono
Vincenzo Vela,
Luigi Buzzi,
Enrico Butti,
Francesco Barzaghi), sono osservatori privilegiati del cambiamento di sensibilità della rampante borghesia lombarda
fin de siècle, , che chiede per sé -oltre al ricordo privato negli affetti- la celebrazione pubblica delle virtù civili del lavoro e della realizzazione professionale. Del Foscolo dei
Sepolcri è tramontata l’aspirazione alle virtù patriottiche; resta la corrispondenza degli amorosi sensi, accompagnata però dall’assai meno eroico furore dell’affermazione economica e sociale.