Certo dev’essere una bella soddisfazione per un artista
avere nel proprio carnet una corposa monografia firmata da Germano Celant,
pubblicata da un editore internazionale e curata con attenzione, dalla veste
editoriale (non può mancare la copertina rigida e la rilegatura) alla qualità
delle stampe a colori. Per non dire della piacevolezza che può rappresentare,
raggiunta una certa soglia di esperienza vissuta, il vedere riuniti in un libro
di tal fatta tanti dati, racconti, lettere, fotografie, inviti, cataloghi,
testimonianze.
Altrettanto certo è che
Giosetta Fioroni tutto questo se lo meriti senza alcun tentennamento.
Poiché non dev’essere stato facile, anche con i genitori artisti e un maestro come
Toti Scialoja, far parte di quella “scuola” di geniali
scapestrati rivettati a piazza del Popolo a Roma, lei donna in mezzo ad
Angeli,
Festa,
Schifano. Sforzi premiati sin
dalla giovinezza, poiché in Biennale c’è arrivata nel 1956, cioè a 24 anni, e in
quel caso si poteva ben scrivere “giovane artista”, non come ora che si è tali
fino agli “anta” abbondanti, e proprio in un’era in cui si dice che tutto corre
(troppo) veloce.
La sua biografia è ricca a tal punto di segnavia memorabili
da far invidia: così, scorrendone le tappe, si scorge la performance
La Spia
ottica, che inaugura nientemeno che il
Teatro
delle Mostre della Galleria La Tartaruga di
Plinio de Martiis (nel libro, uno degli “spioni” immortalati è Ennio Flaiano);
e poi la presenza a un’altra pietra miliare dell’arte romana e globale al
contempo, ossia la kermesse
Vitalità del
negativo nell’arte italiana 1960/70,
curata da un allora giovane Achille Bonito Oliva, animata dall’impareggiabile
Graziella Lonardi Buontempo e documentata dagli scatti di
Ugo Mulas.
S’aprirebbe poi un capitolo quasi
infinito se si volesse anche solo accennare al rapporto di Giosetta Fioroni con
la letteratura e i letterati: principiando ovviamente da Goffredo Parise, e
spaziando dalla A di Arbasino alla Z di Zanzotto, senza scordare la seminale
collaborazione con Nanni Balestrini, coi disegni ispirati al di lui
Frammenti
di un sasso appeso.
Che dire poi delle tecniche
affrontate (il termine non è casuale)? L’etichetta che le viene
appiccicata è quasi sempre quella di pittrice. E non è affatto falso, benché si
tratti piuttosto d’una “
antipittura”
(la definizione è di
Emilio Vedova, in
una lettera che le invia nel settembre del 1957). Che poi si aggiunga
l’aggettivo ‘pop’ esacerba al di là dell’accettabile la limitazione (e si
dovrebbe ancora una volta tornare a discutere se la Pop Art in Italia sia mai
realmente esistita). Perché così facendo si confina nello sporadico, quasi
nell’irrilevante tutto ciò che Giosetta Fioroni ha fatto per e nella
performance, nella scultura (stavamo per dire “installazione”), nella ceramica,
nell’illustrazione (termini sempre più impoverenti, ahinoi), nella fotografia
(e sovviene la mostra romana del 2002 con
Marco Delogu).
Classe 1932, si diceva all’inizio,
o almeno lo si poteva desumere. Ma scrive bene Erri De Luca: “
Giosetta
Fioroni non è ancora pronta all’impresa di senex”.