Nell’attuale panorama dell’editoria d’arte è sempre più massiccia la presenza di monografie dedicate ad artisti la cui carriera non è stata ancora consegnata agli onori della storia. E’ una tendenza positiva perché permette di accedere ad una vasta raccolta di notizie e informazioni sui i fenomeni in pieno svolgimento. Allo stesso tempo la maggior parte delle biografie ha il difetto di parlare e divagare troppo, di divulgare solo i dettagli omettendo il puntuale inquadramento storico e politico.
Non è il caso però di Sislej Xhafa, che nel suo lavoro mette in discussione il sistema, le istituzioni, le divisioni economiche tra i vari paesi, la legalità -e l’illegalità- imposte. A partire da questo contesto di carattere politico, e dalla sua origine albanese, è possibile fare una esauriente lettura dei motivi più profondi che animano il suo lavoro.
E’ evidente che il primo obiettivo di azione di Xhafa è l’azione in se stessa: tutte le sue opere si presentano come attestazioni vitali che denunciano la messinscena del sistema, la sua indifferenziazione dei valori e l’impossibilità del sogno utopico di una democrazia uguale per tutti. L’emigrazione e la difficoltà dell’inserimento nella società diventa metaforicamente il disagio dell’artista stesso; la sua impossibilità di stare al mondo. La rappresentazione e la riflessione sull’evento commissionato all’artista dall’Istituto per la Grafica di Roma è ben descritta dal saggio introduttivo di Luigi Ficacci che lo inquadra in una sorta di panorama generale che comprende tutto il suo precedente lavoro. Invitando un gruppo di studenti dell’Accademia nella prestigiosa sede del Palazzo dell’Officina della Calcografia a copiare come modello una struttura in legno, l’artista coinvolge il pubblico nell’azione, lo costringe a partecipare al rito dell’arte nel suo farsi. C’è una dinamica tra interno e esterno, tra l’istituzione e la città (i disegni eseguiti vengono poi esposti su delle tende verso le finestre che danno all’esterno) che è il nodo del conflitto, il suo punto cruciale.
Xhafa esclude tutto ciò che ha a che fare con il complesso itinerario di mediazioni che viene studiato e praticato per arrivare all’immagine. Fin dai suoi primi lavori ha inscritto la sua opera in un faccia a faccia con la minaccia di mortificazione che tutti i dispositivi di sicurezza della cultura occidentale contribuiscono a costruire. Non solo nella nostra società ma nello stesso sistema dell’arte, paradossalmente ancora meno libero da certi pregiudizi. Con un linguaggio semplice, con azioni apparentemente banali, dal particolare del quotidiano, dall’ordinario egli estrae il tagliente, il grottesco, a volte il sublime. Per la prima volta sono riunite in un catalogo le immagini dei suoi interventi: dalla performance eseguita per il Padiglione Clandestino Albanese alla Biennale di Venezia del 1997 a Stock Exchange, presentato a Lubiana nel 2000 per Manifesta III. Il corollario delle interviste dei critici Giacinto di Pietrantonio e Teresa Macrì serve a ribadire ulteriormente il suo coinvolgimento nel tema della clandestinità e dell’illegalità affrontato con azioni violente e sovversive. Attraverso questo ribaltamento di prospettive l’artista ottiene un effetto di “reale aumentato” che dà al gesto tutta la sua efficacia. Nei lavori più recenti come Sleeping Beauty al Palais de Tokio di Parigi o Garibaldi e Autoritratto al Magazzino d’Arte Moderna di Roma, questo eccesso di reale va a toccare le pieghe più sensibili della coscienza politica e sociale. Confrontando tutte le immagini delle opere raccolte per la prima volta tutte insieme, si è sedotti dal senso di intrattenimento, dal fatto che la maggior parte di esse sia attraversata da una vena gaia, leggera. Cosa che in un mondo sempre più dominato dalla nostalgia dell’utopia, costituisce una provocazione in più.
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