Non sono molte le cose che accomunano gli esseri umani. Essenzialmente
si tratta di funzioni fisiologiche: introdurre ed espellere sostanze, riposare.
In fondo, per vivere non è necessario null’altro. Che poi, limitandosi a ciò,
si possa definire ‘vita’ questo stato di sopravvivenza, è una questione diversa.
Tornando alla fisiologia: si parlava di cibo. Proprio grazie
alla molteplicità affastellata di pentole e pentolini, coperchi e casseruole,
padelle e marmitte l’indiano Subodh Gupta s’è
fatto conoscere in tutto il mondo. Sono recipienti scintillanti, tirati a
lucido, apparentemente nuovissimi. E vanno a comporre figure spesso enormi, al
modo degli ortaggi manieristi di Arcimboldo. Ma, nel caso di Gupta, l’idea del divertissement è
fuori luogo. E non tanto e non solo per la drammatica situazione della società indiana,
dove certo il cibo non abbonda. Per la medesima ragione entrambi gli estensori
dei brevi saggi che accompagnano il volumone Electa – Elio Grazioli e Nicolas
Bourriaud – citano Arman, ma specificando
che si tratta di un richiamo meramente formale. Poiché il nouveau réaliste, con
le sue accumulazioni, faceva opera di denuncia della società consumistica nella
quale abitava e che mostrava all’epoca il meglio – o il peggio? – di sé.
Tutt’altra questione è quella di Gupta. La cui accumulazione
di oggetti fa piuttosto pensare, come correttamente nota Bourriaud, alla
proliferazione tipica della civiltà induista. Che sin dal suo pantheon di
divinità (ammesso e non concesso che il termine sia calzante) ha fatto dell’abbondanza
e dell’eccesso una cifra distintiva.
Il punto è allora, come nel caso dell’arte africana, cercare
di ampliare lo sguardo, interpretativo anche. Per ciò Grazioli scrive che,
almeno dalla Documenta del 2002, “è l’arte extra-occidentale che irrompe e mina
dall’esterno quella occidentale, le sue convinzioni, i paradigmi, i modi”. E lo
fa innanzitutto reimmergendosi nella realtà, dando una “spallata” alle derive
superformaliste, all’iperconcettualità: “Il senso dell’arte resta in questa
apertura di una dimensione altra rispetto, ma tutta dentro, al reale”.
È il senso condiviso dalle pagine di Bourriaud, il quale
ripercorre brevemente la recente storia dell’ingresso dell’arte “extra-occidentale”
nell’artworld nostrano: dall’ormai mitica mostra parigina Les Magiciens de la
Terre curata da Jean-Hubert Martin (il cui catalogo ha raggiunto cifre
importanti nelle librerie specializzate) nel 1989, l’anno della caduta del Muro
di Berlino, alla Biennale di Kwang Ju del 2000. In quel decennio s’è giocata la
partita del “secondo periodo del post-modernismo”, nella strettoia fra la
valorizzazione estremista d’ogni specificità culturale (col rischio di un
relativismo radicale e quindi contraddittorio) e la mai abbandonata ricerca d’un
criterio ermeneutico di carattere estetico (col rischio di ricadere nel
colonialismo culturale).
Insomma, è il nodo che lo stesso Bourriaud ha cercato di sciogliere
nel suo recente The Radicant. E non è un caso che proprio un artista come Gupta
sia esemplare in questo senso, ossia nel proporre un’arte che non dimentica le
proprie radici ma – si potrebbe dire – rendendole aeree, in grado di
contaminarsi senza per questo morirne; anzi, arricchendosi in una dinamica di simbiosi
instabile, altalenante, aperta.
Per questo suo ruolo, per la sua “capacità di tradurre la
propria singolarità”, Gupta si merita senz’altra la pubblicazione di una monografia
tanto ricca e completa.
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Il
mercato indiano
Gupta
in mostra a San Gimignano
…
pure nel 2008
marco enrico giacomelli
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 64. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
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