Su grafica, stampa, concept editoriale di questo libro non si può dire molto, poiché sono arcinote la cura e l’influenza che i prodotti di DGV hanno su certi ambienti, in specie legati al graphic design. Qualche parola va invece spesa sul taglio curatoriale adottato, poiché la dizione
Young Contemporary Art ha un’estensione semantica enorme, a partire dal dato anagrafico fino alle possibili discettazioni su cos’è (l’)arte, passando per la filosofia della storia che definisce la contemporaneità.
In primo luogo, la selezione di artisti presentati ha, secondo i curatori, un diretto legame con i movimenti pop(olari) del ventennio ’60-’70 e/o con la nebulosa che va sotto il nome di
urban art. Detta altrimenti, il riferimento non va alla Cultura bensì alle culture disseminate tra i fumetti, i muri di periferia, le soap-opera e i romanzi da un tanto al chilo. Per sintetizzare:
lowbrow. Dominano la figurazione e la perizia tecnica. Ma, specie nel caso dei meno affermati, sono mille i rivoli in cui quest’approccio si disperde e feconda il terreno della cultura visuale. Si comincia allora con una losangelina,
Camille Rose Garcia, e poco dopo non può mancare la conturbante
Miss Van, con le ormai notissime figure femminili in abiti succinti.
Questo è tuttavia soltanto un quinto del libro e in fondo quello meno interessante. Il discorso si fa più intrigante nelle sezioni seguenti.
Così, nelle pagine dedicate al
Gothic spuntano letteralmente le sculture di
Elizabeth McGrath, trofei di una caccia al kitsch senza limiti, gli oli di
Chet Zar, senza dimenticare un decano come
Ray Caesar, londinese classe 1958.
E se suscitare emozioni forti col gotico è infine piuttosto semplice, la questione si fa più complessa nel caso del
Realism. In sintesi, ciò che rende inquietanti le opere del gruppo di artisti qui riuniti è una generale attenzione per la tecnica “accademica” (il caposcuola è,
ça va sans dire,
John Currin). Portata però ai suoi estremi iper-reali, ingenerando un’ansiogena confusione fra i concetti di riproduzione pittorica e fotografica (
David Kassan); oppure è accostata a scene nelle quali si è insinuata una discrasia di natura contestuale (i pugili in giacca e cravatta di
Casey Mc Kee) o addirittura ontologica (gli angeli michelangioleschi nel set cinematografico dipinto da
Sebastian Schrader).
Dal trotto al galoppo, l’ampia selezione di coloro che vengono definiti
illustratori cede il passo a
Character, dove si guadagnano una menzione il duo
Friends With You e i suoi eterei personaggi
à la Miyazaki, quel
Gary Baseman più volte passato da Roma e un altro fuoriclasse,
Yoshimoto Nara. Debole se non per
Os Gemeos la parte denominata
Urban Art, e non entusiasma troppo neppure
Pattern.
Si chiude in bellezza con l’
Espressionismo, dove i tedeschi ovviamente spopolano. E qui citiamo almeno le dissonanti compresenze di scala nei dipinti di
Leopold Rabus, le sgranature fumettistiche di
Joe Coleman (che gode del buon vicinato di
Raymond Pettibon) e i furiosi esplosi(oni) di
David Schnell, che ha appena concluso una minipersonale al Mart di Rovereto.