Un consistente arricchimento conoscitivo sulla figura di
Mario Giacomelli (Senigallia, Ancona, 1925-2000) – come artista e soprattutto come uomo – scaturisce dal prezioso lavoro di Simona Guerra. Il format del libro si distanzia dall’asetticità di un saggio, dalla asistematicità di uno scritto d’artista, dalla presunzione di una biografia. Al contrario, si costruisce sulla falsa riga di una conversazione intima, aperta e interrogativa di un uomo in età avanzata, che riflette sulla sua vita, sulla poesia, sull’arte e sulla fotografia come modalità espressiva eletta per relazionarsi con l’esistenza.
Nella prefazione, Cesare Colombo sottolinea un presupposto essenziale del metodo di lettura utilizzato – che è anche una precisa
Weltanschauung discutibile e per questo critica -, ossia che esista una stretta corrispondenza fra la storia personale di un artista e la sua opera, fra il contesto che vive e le sue “
occasioni creative”.
Le sette ore trascorse con la nipote, conversando nella familiarità della camera oscura, sono state pazientemente sbobinate dall’appassionata ascoltatrice, per tradurre i frammenti di quei discorsi in una sequenza cronologica che si sussegue nei temi affrontati nelle opere, riuscendo al contempo a preservare la spontaneità della lingua, a volte dialettale, e la sincerità del colloquio.
Nei ventitré capitoletti (preceduti da una sintetica biografia), le dirette parole dell’artista sono introdotte dalle puntuali spiegazioni della studiosa, consentendo così di ripercorrere molte delle tappe della sua ricerca attraverso gli occhi del fotografo, al punto che le immagini che ne costruiscono l’apparato visivo si trasformano, in più occasioni, in rappresentazioni concrete del suo pensiero. È impressionante la diversità con cui si riguarda, ad esempio,
Fiamme sul campo dopo aver appreso che le canne del campo non erano altro, per lui, che ragazzini in fila durante la processione della prima comunione.
Questo per dire che la fotografia, così come viene scattata e altrettanto come viene percepita, non è altro che una selezione sulla realtà, un’interpretazione istintiva, “
un’immagine delle sensazioni”, per citare Giacomelli. Di qui il senso di un’indagine a tutto tondo sulla personalità, sul suo approccio e sulla sensibilità verso la natura, che ritorna in un’affascinante miscela di realismo e astrazione (si pensi ai
Paesaggi marchigiani, a
Motivo suggerito dal taglio dell’albero), verso l’umanità, che incede fragile nello scorrere del tempo (
Vita d’ospizio,
Scanno,
Il canto dei nuovi emigranti), verso le parole dei poeti, che dialogano con il suo io più intimo (
Carolin Branson,
A Silvia,
Felicità raggiunta,
Io sono nessuno).
È forse questa totale rispondenza tra vita e arte che spiega l’atteggiamento restio verso le rigide definizioni di “artista”, “fotografo” (a maggior ragione contraddette dalla pittoricità delle sue composizioni materiche) e il disinteresse per le date, per la tiratura delle stampe, che lo preserva dalle più spietate logiche del mercato, pur senza escluderlo dal riconoscimento internazionale: “
Preferisco dire di avere delle idee. C’è chi ne ha e chi no, poi che sia arte io non l’ho mai pensato; mi vergognerei a dire che faccio arte, mi sembra di essere presuntuoso”.
Una lettura profonda, che trasuda un amore per l’universo in ogni suo aspetto. Anche il più semplice.