Naturalmente s’è già molto scritto a proposito di Daniel Birnbaum, anche in Italia ora che si appresta a dirigere la Biennale di Venezia e la Triennale torinese. Nato a Stoccoma nel 1963, ha un curriculum innanzitutto filosofico, brillantemente “applicato” all’arte contemporanea, che si tratti di curare rassegne o spazi espositivi, insegnare o riflettere in forma simposiale e sulla carta. Traduttore pare di ottimo livello dal tedesco allo svedese di testi ormai classici della filosofia (Husserl e Heidegger, per citare due soli esempi), ha suggellato il proprio corso di studi con una tesi di dottorato,
The Hospitality of Presence, pubblicata nel 1998 (del 2008 è la nuova edizione) e dedicata ai
Problemi dell’alterità nella fenomenologia di Husserl.
È proprio il pensiero husserliano a costituire ancor oggi il nerbo delle sue riflessioni sull’arte. Certo, si tratta d’una fenomenologia “riveduta e corretta” grazie al contributo di pensatori successivi, francesi
in primis. Ma ciò che resta è almeno l’idea della
filosofia come scienza rigorosa, per citare un libello dello stesso Husserl, che non s’annacqua nei vaticini di un’argomentazione spesso caricaturale.
Detto ciò, si potrebbe utilizzare cinicamente come spunto il “coccodrillo” dedicato a Harald Szeemann, pubblicato da Birnbaum su “Artforum” nel giugno del 2005. Si apre col più classico dei tributi, ossia Szeemann come capostipite del curatore moderno, quello in linea di principio indipendente, ma che non disdegna sponsorizzazioni; colui che diviene “
egli stesso un artista” o, meglio, “
meta-artista”.
Ma Birnbaum non manca di rilevare, al di là della retorica
in memoriam, che operazioni per certi versi simili avvenivano anche altrove, a New York per esempio, grazie all’opera dell’artista-curatore
Seth Siegelaub. E se cita
Inszenieren ist Lieben come “
un documento canonico per la curatela contemporanea”, lo svedese non omette di segnalare quanto lo stesso Szeemann “
non fosse un teorico significativo”.
Sicurezza e non sicumera che Birnbaum trae pure dall’aver pubblicato nello stesso anno quello che, finora, resta il suo unico saggio corposo in forma di libro dedicato all’arte contemporanea, ossia
Chronology, disponibile in italiano nel raffinato catalogo di Postmedia Books e ben tradotto da Anna Simone.
Di cosa tratta il volume? Un primo indizio è fornito dalla
Risposta di Birnbaum a Paolo Virno contenuta negli atti, pubblicati dall’editore Sternberg, delle tre sessioni della conferenza
Under Pressure, tenutasi nel 2006-2007 all’Institut für Kunstkritik di Francoforte, fondato nel 2003 dallo stesso Birnbaum insieme a Isabelle Graw. Un centro studi che nasce dall’idea che la situazione della critica d’arte non sia così catastrofica come sembra: “
Poiché le competenze della critica sono state progressivamente ampliate, è ora emerso un nuovo profilo per il critico”. Al punto che, paradossalmente, si potrebbe parlare “
di tutto tranne
che dell’opera d’arte”.
Provocazione, forse, sviluppata pure in
Thinking Worlds, libro che raccoglie gli atti di un simposio tenutosi in occasione della seconda Biennale moscovita, con interventi firmati da intellettuali come Bernard Stiegler, Saskia Sassen, Chantal Mouffe e Giorgio Agamben. L’idea di fondo consisteva nel mettere in relazione tre
topic: “
Il senso e la finalità dell’‘evento’ nella cultura artistica contemporanea, le riflessioni circa lo status della filosofia e della teoria estetica e quelle relative al significato politico degli interventi artistici” (l’intervento di Birnbaum, scritto a quattro mani con Sven-Olov Wallenstein, era intitolato
Thinking Philosophy, Spatially: Jean-François Lyotard’s Les Immatériaux
and the Philosophy of the Exhibition).
Ma su cosa si concentrava la risposta a Virno? Sulle “
riflessioni più recenti concernenti le nuove costruzioni del sé”. Il medesimo perno incardina
Chronology, un libro che per l’appunto parla del tempo, nella convinzione che “
la genealogia del soggetto è sempre anche una cronologia”. E lo fa analizzando opere come
Der Sandmann di
Stan Douglas, con la sua fessura-sincope che divide le due proiezioni, “illustrando” – o, meglio, producendo – l’“
azione in differita” che Freud chiamava
Nachträglichkeit. In altre parole, l’
infinita costituzione del sé.
Se dunque quella della fenomenologia trascendentale resta per Birnbaum la più “
sofisticata e persuasiva” riflessione sulla soggettività, nondimeno essa appartiene a una concezione tradizionale. Non è per ciò sufficiente la metafora husserliana del flusso temporale e nemmeno quella bergsoniana-deleuziana del cristallo. Sono figure retoriche
cinematografiche, come l’
Ellipse analizzata da
Pierre Huyghe.
Qualcosa di differente può e deve dirlo l’“
altro cinema”, la video-arte, visualizzando tempi (narrativamente) polifonici, che non si esauriscono certo nella successione di passato, presente e futuro; proiettandosi al di là della linearità ma pure della singolarità di queste scansioni e del soggetto che le percepisce. L’esito non è però necessariamente la psicosi, come in
The House di
Eija-Lisa Ahtila, e neppure l’irritante
eloquenza mitopoietica di un
Matthew Barney. Lo dimostrano opere come
electric earth di
Doug Aitken e pure esperimenti più datati come
Opposing Mirrors and Video Monitors on Time Delay del 1974 di
Dan Graham.
Il punto, però, a parere di Birnbaum, concerne la possibilità e la
volontà di guardare al futuro. Di produrre “
un’arte di anticipazione ed emergenza”, come in
El sueño de una cosa di
Philippe Parreno o, in un senso
differente, in
Moonsoon (1995) di Aitken. Un atteggiamento, se si potesse dire, opposto a quello di artisti come
Tacita Dean o a critici come Benjamin Buchloh: “
Un approccio troppo marcatamente nostalgico […] in definitiva capace solo di riprodurre forme consuete di soggettivazione e, quindi, inutile”.
In sintesi, “
il tempo lineare non è né una realtà né un concetto, è una brutta abitudine”, afferma
Paul Chan. Il prossimo libro di Birnbaum si intitolerà allora
kairologia? E a Venezia vedremo una Biennale escatologica? L’obsoleto datario c’impone l’attesa per qualche mese ancora.