Immaginate di girovagare – accompagnati da una colonna
sonora fatta da frammenti letterari e filosofici, suoni e rumori – in uno
spazio vagamente labirintico, nei cui ambienti semioscuri ci sono reperti di
vario tipo: opere d’arte, facsmili, immagini diagnostiche, strumenti e prodotti
industriali. Se oggi il pubblico è avvezzo a installazioni interattive e ad
allestimenti scenografici di tale sorta, alla metà degli anni ’80 nelle sedi
museali europee di cose del genere se ne vedevano davvero poche!
Se per caso poi cercate nel catalogo qualche lume, vi
troverete a maneggiare un insieme di fogli sciolti con testi e immagini
raggruppati sotto titoli tanto evocativi quanto enigmatici: di fronte a questo
esplicito omaggio alla
Boîte verte di
Duchamp il senso di smarrimento e di perplessità evocato dagli
Immatériaux
ha conservato
tutta la propria fragranza che, arrivata intatta fino a noi, solletica la
curiosità del ricercatore. Un classico caso in cui, pur restando un potente
strumento di comunicazione, la mostra non è più un
medium trasparente.
Proprio questo insieme di fattori conferisce all’esposizione
curata da Lyotard al Centre Pompidou, nel 1985, una prepotente attualità che
discende soprattutto dalle scelte teoriche e allestitive e dal ruolo del
curatore, un filosofo che non dismette i panni dell’autore, trasfigurando la
mostra
in un’opera
creativa.
Fino ad allora, infatti, erano stati prevalentemente gli
artisti a lavorare sul dispositivo espositivo trasformandolo in opere, mentre
erano ancora rari i critici che, con un triplo salto mortale, avevano abdicato
alla propria funzione interpretativa e pedagogica. Il caso di Lyotard è
tuttavia paradigmatico per la sua specularità rispetto al mondo dell’arte:
intellettuale di fama internazionale, egli trasmette alla funzione di curatore autorevolezza e individualità critica.
Lungi dal volersi accreditare come curatore di grido, alla
stregua dei maggiori esponenti della storia della curatela – da Harald Szeemann
a Germano Celant, per fare solo qualche nome – nel mettere in scena il
disorientamento teorico tipico della condizione postmoderna Lyotard crea nello
spazio fisico della fruizione museale percorsi multipli e ambienti fluidi, in
cui lo spettatore si deve lasciar andare alla deriva; accosta oggetti comuni e
opere d’arte, scuote la rassicurante passività del pubblico e lo inizia alla
visita performativa, oggi così di moda.
Simile a una grande installazione interattiva, che
reagisce in maniera enigmatica ai moti del pubblico,
Les Immatériaux occupa di diritto un posto nella
storia del medium esposizione, accanto a
Documenta 5 (1972), a
Chambres d’amis (1986) e a
Magiciens de la
Terre (1989), ad
esempio. È innovativa, eterodossa, difficilmente classificabile.
D’altronde, fin dagli anni ’70 Lyotard aveva rivendicato
per il critico un’autonomia pari a quella dell’artista, sostenendo che un’opera
d’arte è tale perché detta le condizioni per la propria interpretazione e
comprensione; cioè istituisce un nuovo gioco linguistico, per usare il lessico
di Wittgenstein, con le proprie regole.
Infatti, sul piano della ridefinizione del
medium esposizione,
Les Immatériaux è proprio un tentativo in tal
senso: detta nuove regole e le mette in pratica in un esempio concreto. E così
le fa esperire a quanti partecipano al nuovo “gioco linguistico”: i visitatori.