In un recente convegno tenutosi a Milano, il sociologo Domenico De Masi ha brillantemente parlato, fra l’altro, della natura e dell’importanza dei
format. Ed è esattamente un format quello che ha inventato Hans Ulrich Obrist. Il quale certo non ha dato vita al genere dell’intervista o, meglio, del dialogo pubblico e pubblicabile. Ma ha il merito di averlo trasformato, per l’appunto, in un format. Rendendone l’ideatore riconoscibile e riconosciuto in tutto l’
artworld.
Tale è la quantità e la qualità delle interviste realizzate sinora, e tuttora in via di realizzazione, che se ne può fare quasi qualsiasi cosa. Per esempio, raccoglierle con scrupolo crono-filo-logico, come sta facendo Charta (editore di un primo volume nel 2003 e di un secondo in uscita per l’autunno prossimo, con altre 70 conversazioni). Oppure affidarsi alla pratica del rimescolamento e della risignificazione. Detto fatto: basta mettere insieme una manciata di dialoghi con alcuni fra i più rilevanti curatori internazionali – con l’aggiunta di prefazione e postfazione firmate rispettivamente da Christophe Cherix e Daniel Birnbaum – ed ecco che ne salta fuori una
Breve storia della curatela.
Va da sé che si tratta d’una storia tutta particolare, esente ab origine dal rispettare qualsivoglia canone storiografico (ciò vale per chi conosce Obrist e il suo modus operandi; ma visto che le star dell’artworld non sono necessariamente note coram populo, un sottotitolo esplicativo non avrebbe guastato). Date queste premesse, la scelta della rosa degli interpellati non è per definizione assoggettabile a critiche.
Deposte dunque le armi della discussione generale, si può “soltanto” leggere e godersi i singoli scambi d’opinione ed esperienze. Magari piluccando qui e là qualche aneddoto da rilanciare nell’arena relazionale, setacciando elementi di storia della curatela critica, facendo emergere lo stridore fra concezioni dell’arte e del suo allestimento spesso diametralmente opposte.
Un libro quindi patentemente disomogeneo e non certo “istruttivo”, qualora con quest’ultimo termine s’intenda la comunicazione d’una impostazione univoca. Insomma, sconsigliabile all’adozione in un corso pratico per curator, di quelli che preparano i “
filippini dell’arte”, secondo la definizione di Achille Bonito Oliva.
Perché nel libro di Obrist – un genitivo che suscita qualche interrogativo – non si fa scuola; al contrario, è una sorta di peana del
bello del relativismo, come titolava qualche tempo fa un libello che ci si auspicava avesse maggior successo.
Per com’è strutturato il volume, non volendo sottrarre al lettore il piacere di scovare i suddetti aneddoti, non si possono che far premesse in sede di recensione. O, al limite, fornire l’elenco nudo e crudo degli intervistati: Anne d’Harnoncourt, Werner Hofman, Jean Leering, Franz Meyer, Seth Siegelaub, Walter Zanini, Johannes Cladders, Lucy Lippard, Walter Hopps, Pontus Hultén e Harald Szeemann.
Una postilla sulla postilla di Birnbaum merita tuttavia un cenno. Postilla – quella del direttore della Biennale 2009 – che parla praticamente di tutto, tranne che del libro al fondo al quale è pubblicata. E in questo densissimo tutto (sono appena cinque pagine), il “nostro” Birnbaum
si espone pure sulle biennali. Sostenendo che oramai sono “
giunte a un’inevitabile fine” e che per sopravvivere vanno “
reinventate”. Tutto più o meno condivisibile. Ma, curandone un paio l’anno e portandovi sempre il nucleo granitico di “suoi” artisti, Birnbaum sta facendo opera di reale reinvenzione? Sarebbe una domanda da suggerire a Obrist.