Che un pensiero come quello di Jacques Derrida, che va sotto il nome di
decostruzione, si sia interconnesso a più riprese con l’architettura, pare fatale. E i motivi sono molteplici, come numerose sono state e restano le ambiguità.
Innanzitutto, il termine “decostruzione” rimanda immediatamente all’atto del costruire – in senso proprio o figurato – e il prefisso de- alla sua problematizzazione. Non si tratta infatti di di-struzione, di
De-struktion, piuttosto dell’equivalente del tedesco
Ab-bau. E ciò ch’è sottoposto a sollecitazione è la struttura stessa della metafisica, la sua architettura. Che non s’intende annichilire, bensì ripensare a partire dalle fondamenta, in un movimento sì complesso ma basilarmente “positivo”. In questo senso, è l’architettura stessa intesa come disciplina o “
teleologia dell’abitare” – come scriveva qualche tempo fa Roberto Diodato – che la decostruzione interroga.
D’altro canto, l’interesse della filosofia nei confronti dell’architettura non è una novità. E se il primo pensiero, se non altro cronologico, va ad Aristotele, si può agevolmente scattare in avanti passando, fra molteplici stratificazioni metaforiche, dalla kantiana “
architettonica della ragione” all’acme gotico individuato da Hegel, poi all’opposizione costruire/abitare proposta da Heidegger. E siamo a Derrida.
Prima però va accennato il
côté architettonico, e la questione che si complica. Per semplicità, si è optato per definire
decostruttivisti quegli architetti che hanno accolto in maniera feconda ma autonoma la riflessione derridiana. I nomi? Peter Eisenman e
Zaha Hadid,
Daniel Libeskind e
Gordon Matta-Clark,
Frank Gehry e Bernard Tschumi,
Elia Zenghelis e
Coop Himmelb(l)au,
Rem Koolhaas e
Dirk Coopman. L’elenco potrebbe continuare, pur tenendo presente le radicali differenze fra le singole ricezioni. E tali differenze sono emerse con forza nella mostra che segna l’apice del decostruttivismo, quella curata da Philiph Johnson nel 1988 al MoMA col titolo
Deconstructive Architecture.
Torniamo a Derrida. Che da
Bernard Tschumi era stato coinvolto per ideare, insieme a
Peter Eisenman, un intervento nel parigino Parc de la Villette; intervento che rimase allo stadio progettuale o poco più. Da quell’esperienza nacque nel 1988
ChoraL Work, un libro atipico non solo per le sue pagine forate, ma anche perché raccoglieva in maniera volutamente disordinata materiali di lavoro e passi di convegni e presentazioni. Qualcosa di ben diverso da quanto propone il volume curato da Francesco Vitale, che riunisce in maniera cronologica buona parte degli scritti di Derrida afferenti l’architettura e i suoi confini (mancano
Pourquoi Peter Eisenman écrit de si bons livres e
Cinquante-deux aphorismes pour un avant-propos, che saranno compresi nel secondo volume di
Psyché, in uscita per Jaca Book). Testi stimolanti, talora polemici, sempre generosi nel suscitare pensieri ulteriori.
Rimangono sullo sfondo tre motivi di rammarico: l’autore non avrebbe forse condiviso quest’operazione editoriale così architettonica; fatta salva la validità del detto “meglio tardi che mai”, il volume si sarebbe potuto dare alle stampe diversi anni fa, come il sottoscritto propose a un editore meno lungimirante di Scheiwiller (almeno la bibliografia che ho stilato e pubblicato per l’Università del Minnesota pare però esser stata utile a Vitale); il fiacco titolo del libro,
Adesso l’architettura, è la traduzione del titolo di un articolo,
Maintenant l’architecture, dove però la prima parola ha un significato ben più ricco, esplicitato da Derrida in
Donner le temps I. La fausse monnaie.