Beato Angelico come
Pollock o
Kandinsky. Un cortocircuito a dir poco elettrizzante, quello
proposto da Georges Didi-Huberman nel volume
Beato Angelico. Figure del
dissimile, già
uscito in Italia nel 1991 e recentemente ristampato da Abscondita nella collana
Carte d’Artisti.
Un saggio nato da una sorpresa, come spiega l’autore: quella di trovare in un
affresco quattrocentesco vere e proprie zone non figurative, “
macchie
multicolori rispetto alle quali le nostre consuete categorie di soggetto, di
imitazione o di figura sembravano realmente dover naufragare”.
L’affresco in questione è la celebre
Madonna delle
Ombre, dipinta da
Fra’ Giovanni da Fiesole tra il 1438 e il 1450. Ciò che colpisce Didi-Huberman
è la fascia dipinta su cui poggia la
Sacra Conversazione, una superficie variopinta dal
sapore vagamente “
astratto”, raffigurante quattro pannelli di marmo finto. A ben
guardare, però, le quattro lastre sono tutt’altro che semplici elementi
decorativi. Una pioggia di macchie indefinite e multicolori percorre la parete,
evocando un dripping di Jackson Pollock e creando una superficie rizomatica,
fatta di intrecci di significato.
Una vera e propria superficie-macchia, che tende a
oscurare qualsiasi effetto di mimesi dell’aspetto, per mettere invece in
evidenza l’esistenza della materia come indizio pittorico. Sotto questa materia
si cela, infatti, il mistero della Sacra Scrittura che Beato Angelico
costantemente cercava di rappresentare, anche a scapito di una realtà puramente
mimetica. Secondo quanto riporta il
Vasari nelle
Vite, Beato Angelico “
aveva per costume di non
ritoccare né racconciare mai alcuna sua dipintura, ma lasciarle sempre in quel
modo che erano venute la prima volta, per credere, secondo ch’egli diceva, che
così fusse la volontà di Dio”.
Che rimandino alle gocce del latte della Vergine sulle
pareti della grotta della Natività o alla pietra su cui fu deposto e unto il
corpo di Cristo, macchiettata di verde e giallo, i quattro pannelli multicolori
della
Madonna delle Ombre si presentano prima di tutto come superfici di
contemplazione, che costringono lo spettatore a penetrare la profondità della
figura
Christi.
E come figurare l’infigurabile, come dipingere l’al di là
del visibile? La dissomiglianza costituisce a questo proposito il mezzo
privilegiato di una tale “
misterizzazione” dei corpi. Il segno, scrive sant’Agostino, è “
al
di là dell’aspetto”;
ed è così che, “
oltre all’impressione che produce sul senso” (il suo aspetto), fa intuire
qualcosa che è “
fuori di esso”. Ed è proprio sull’esegesi cristiana di sant’Agostino,
Tommaso d’Aquino, sant’Antonino da Firenze che Didi-Huberman insiste nel
volume, svelando l’influsso che il pensiero medievale può aver avuto sulle
scelte pittoriche del Beato Angelico.
A capo di tutta questa costruzione filosofica vi è
certamente l’affermazione di Dionigi l’Areopagita, che raccomanda di preferire
l’immagine dissimile a qualsiasi sembianza e convenienza del divino. “
Le
immagini dissimili”,
scrive Dionigi, “
assai più di quelle forgiate per omogeneità di natura,
conducono in alto la mente nostra”. Il simile ci inganna, invece.
Con una ricerca ancora una volta di ispirazione
warburghiana e con il supporto di numerose illustrazioni (fondamentali per
seguire il discorso filosofico), Didi-Huberman ci trascina in un suggestivo
percorso a ritroso nelle visioni pittoriche di Beato Angelico. Vale l’assunto
iniziale inserito nella presentazione al volume: “
La pittura spesso
sconcerta”.