“
The time iso out of joint”. Apriamo con la nota citazione
shakespeariana poiché, nella sua eco degli
Spettri di Marx di Jacques Derrida, inquadra il
densissimo lavoro di Marcello Faletra. Punteggiato da puntuali e colti
riferimenti alla cultura “filosofica” francese del secondo dopoguerra, il breve
saggio riflette sulle
Dissonanze del tempo,
fornendo al lettore una messe e una massa di
Elementi
di archeologia –
qui il rimando è naturalmente a Foucault –
dell’arte contemporanea, come recita il sottotitolo.
Ciò non significa che si tratti d’un libro scritto da un
epigono della cultura post-strutturalista. E lo dovrebbe dimostrare, almeno in
forma di segnalazione, l’epigrafe posta in apertura, che è firmata T.S. Eliot e
si conclude in tal modo: “
Se tutto il tempo è eternamente presente / Tutto
il tempo è irredimibile”. Nulla di più distante da quanto un Derrida sosteneva, criticando
quella “metafisica della presenza” che abiterebbe come un fantasma la
filosofia, da qualche secolo a questa parte.
E tuttavia, Faletra non pare proprio ricascare in questo
sostanziale vizio di forma. Al contrario,
riesce a restare in equilibrio su quel filo sottilissimo che divide (e unisce)
denuncia e reazione, filosofia della storia e messianismo, disillusione e
sconforto. Più che una terza via, un ammirevole esercizio di funambolismo.
Certo, a volerne decostruire rigorosamente il testo e le tesi, qualche falla la
si potrebbe trovare. E non solo da un punto di vista eminentemente filosofico,
ma pure – per esempio – da quello della critica d’arte, sostenendo magari che
gli esempi citati sono pochi e, in qualche caso, non pienamente confacenti
all’ipotesi che dovrebbero incarnare.
Il punto è però un altro, ed è un punto di tale fissa
inaggirabilità che fa presto dimenticare – qualora si sia in buona fede – le
accademiche questioni di lana caprina. Il punto è la confusione fra
contemporaneità e cronologia, che Faletra denuncia sin dalla prima pagina. E
che, lo ripetiamo, non è solo una questione di filosofia della storia o di
storia dell’arte, ma nientemeno che d’“
imperialismo culturale”. In altre parole, non esiste un
solo tempo, e perciò non esiste una sola attualità: “
Non tutti viviamo nello
stesso presente”.
E ciò vale ovviamente per il singolo nel rapporto a sé e agli altri e alla
società in cui vive; ma soprattutto vale in una logica “comparativa” in senso
geografico. È la
policronia.
Faletra non fa però opera di caritatevole
sensibilizzazione verso le culture altre. Fa ben di più: ricorda, sottolinea,
ribadisce – con Nietzsche e Didi-Huberman – che “
non c’è cronologia senza
anacronismo. In un certo senso l’anacronismo è il rimosso della cronologia”. Attenzione però, non si tratta
di un anacronismo inamovibile dalle proprie
posizioni: “
Separandosi violentemente
dalla storia, l’arte della ‘contemporaneità’ si trova a svolgere un ruolo
anamnesico. E dal momento che tale separazione dalla storia è irreversibile,
l’anamnesi si fa interminabile”.
Qui sorge il problema. Poiché la postmodernità pare aver
sussunto (o poter rapidamente sussumere) ogni forma di straniamento, e dunque
pure l’arte, e soprattutto la sua fruizione
istantanea (con tutto ciò che il termine
‘istante’ significa nella filosofia della storia di Walter Benjamin, altro
riferimento basilare nel libro).
È l’ennesima fine dell’arte di hegeliana memoria? In molti
sono tentati di crederlo, magari auspicando che il presunto timore si riveli
reale. Ma si deve pur sempre tenere a mente la freudiana interminabilità che si
citava poche righe fa; in sostanza, “
la fine dell’arte non smette di finire
, ma
ricomincia sempre”.
La domanda è dunque un’altra: il fatto che l’arte sia in-finita è un augurio o
una minaccia?