Nella storia tracciata da Era Fiction, l’episodio seminale che dà vita alla commistione fra arte e cinema riporta alle scenografie di Dalí per la sequenza onirica dello hitchcockiano Spellbound (1945). Beatrice si propone infatti d’indagare le “zone d’ombra” (p. 32) ove le credenziali di autorialità non sono ancora anchilosate in uno dei recinti che la critica ama erigere. Perciò viene dedicato ampio spazio al distacco dall’avanguardia storica, esemplificato nell’opera di Warhol e in particolare nel periodo in cui alla Factory giunge Paul Morrissey. Proprio in quegli anni, un certo cinema diviene più contaminazione che avanguardia, si muove a cavallo fra galleria d’arte e sala di proiezione.
In questa scia si inserisce il New American Cinema (fra i nomi più noti, Maya Deren, Kenneth Anger, Jack Smith), per una storia che se da un lato resta elitaria a causa della radicale riduzione del plot, dall’altro si confronta ludicamente con la cultura popolare. Così seguono pagine assai piacevoli dedicate a figure classificate fra i registi tout court, come Greenaway e Lynch. Altrettanto stimolante è la sezione dedicata alla New York anni ’80, che “sfogliava sé stessa sulle pagine patinate dei magazine alla moda” (p. 157). Da questo scenario derivano però anche film come Johnny Mnemonic (1995) di Robert Longo, artista che in ambito cinematografico non mostra alcuna indipendenza né sperimentalismo. In questi casi, scrive Beatrice, “non ci troviamo di fronte a un rapporto tra arte e cinema, potrebbe dirsi
Un ampio capitolo analizza il ciclo Cremaster (1994-2002) di Matthew Barney, forse con un eccesso di zelo nella sintesi delle “trame” e alcune semplificazioni in merito a presunte citazioni nietzscheane. L’ultima parte, la più contemporanea, è –forse, inevitabilmente- una galleria di brevi saggi monografici. Dalla riflessione su tempo e identità multipla (della visione) in Stan Douglas e Douglas Gordon, all’immancabile Vezzoli (certo un po’ invadente ed è fra i pochissimi dei quali si cita un lavoro del 2004), dal sublime Doug Aitken al “relazionale” Huyghe. Per quanto concerne gli italiani, sfilano fra gli altri Mocellin, Galegati, Mangano, Golia, Ra di Martino e Benassi. Senza infine dimenticare il Third Cinema o cinearte, rappresentato da figure come Kiarostami e Chantal Akerman.
La conclusione che ne trae Beatrice è che il cinema è “mutato geneticamente” (p. 241), parcellizzato in miriadi di luoghi oltre la buia sala catartica. Può dunque risultare produttivo sfruttare la distanza critica che (talvolta) caratterizza la galleria, ove il visitatore è più attivo e libero di compartecipare, anche solo grazie alla sua mobilità (si pensi alle installazioni e agli split screen di Shirin Neshat). Tutto ciò senza ricercare un nuovo “standard”, ma alimentando il détournement operato dai registi-artisti e dal “cinema di frammenti” (p. 237) dei videoartisti.
Un’annotazione critica concerne un aspetto importante qualora il testo venga adottato per l’insegnamento: manca un indice di nomi e opere complessivo, non suddiviso per capitoli. Inoltre, perché gli anni ’70 sono stati così sacrificati, passando dal primo Cassavetes alla scena punk (cfr. pp. 58-59)?
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