Il titolo e il sottotitolo del libro,
Estetica dei nuovi media. Forme espressive e network society, delineano immediatamente il campo di tensioni nel quale l’indagine di Tursi intende muoversi e denuncia la posta in gioco: l’eventualità di abbandonare i
rassicuranti confini dell’estetica tradizionale, le sue categorie e le sue definizioni, per immergersi nel territorio dei media tecnologici di elaborazione e diffusione dell’informazione, nel quale l’arte sembra oggi dover riprogettare il proprio statuto e la propria funzione.
Gli argomenti che il saggio affronta e approfondisce sono numerosi ed eterogenei, dalla riflessione sul rapporto fra arte e tecnologia dal punto di vista della filosofia quanto degli studiosi dei nuovi media (McLuhan in prima linea), alla perlustrazione dei territori di sperimentazione della net art e della transarchitettura. Ma l’autore si dimostra abile nell’arginare il rischio di dispersione o disorganicità, raccordando i diversi percorsi d’indagine alla luce di un’unica e centrale domanda: cosa accade all’arte e all’estetica nella
network society, in una società letteralmente irretita, innervata dai media della comunicazione?
All’estetica accade qualcosa di fondamentale: questa disciplina specificamente moderna riconosce innanzitutto l’urgenza di recuperare il proprio originario terreno di riflessione, quello dell’indagine sui sensi, l’imprescindibile interfaccia fra noi e il mondo.
È proprio sul terreno delle modalità percettive, oggi sempre più tecnologicamente ibridate, che estetica e mediologia possono inaugurare una feconda collaborazione ed estendere e potenziare i rispettivi ambiti e strumenti di ricerca.
Per quanto riguarda l’arte, assistiamo a un analogo riorientamento, che consiste tanto nel riconoscere l’inefficacia di certe categorie, quanto nella necessità di ripensare innanzitutto l’arte come il
“nostro precipuo orizzonte di senso”, come l’attitudine ad aprire e organizzare l’orizzonte dell’esperienza sensibile in un orizzonte storico di senso, per dirla con Heidegger che, accanto a Gadamer e a Benjamin, è uno dei riferimenti filosofici più forti del testo.
Si tratta di considerazioni teoriche apparentemente generali e astratte, che tuttavia inducono il lettore a porsi una domanda dirimente: a quali condizioni e in che modo l’arte (termine, ricordiamolo, che proviene dal greco
techne) può rendere
abitabile un mondo, il nostro, del tutto mediaticamente innervato? La risposta che Tursi suggerisce è la seguente: la specifica funzione
“mediale” dell’arte, di mediazione fra i nostri sensi e il mondo nel quale viviamo e operiamo, deve riprogettarsi nel medium della comunicazione che più direttamente ci riguarda, la Rete, appropriandosi delle sue specifiche dinamiche connettive e di collaborazione e ridefinendo i suoi compiti in termini eminentemente politici.
Un tentativo, quello di Tursi, di declinare nel presente il progetto benjaminiano di “politicizzazione dell’arte”,
sullo sfondo dell’indigenza nella quale versa la nostra capacità simbolica e comunicativa. Se la liquidità della Rete e soprattutto la sua specifica pluralità (il suo ricreare uno spazio politico nel senso arendtiano della
polis) potrebbero offrire le condizioni più adatte alle quali il lavoro dell’arte può e deve ripensare i propri compiti e le proprie procedure, resta tuttavia forte la perplessità relativa al rischio che questa arte finisca per
abituarci, per rendere
abitabile per noi un orizzonte di esperienza tutt’altro che plurale, ridotto piuttosto a protocolli di comunicazione omologanti, programmabili e ottimizzabili. Ma questa in fondo sembra essere la sfida che i nuovi media lanciano all’arte: pensare e realizzare le condizioni -la fruizione attiva, collaborativa che internet richiede e consente è sicuramente una di queste- alle quali essa possa continuare a essere un contro-movimento rispetto al progetto riduzionista di cui la tecnologia può invece farsi integralmente carico.