Intellettuale cosmopolita, Lóránd Hegyi rappresenta un esempio piuttosto raro d’intelligenza non settoriale. Ciò significa che la competenza e l’acume con i quali legge l’arte contemporanea derivano anche e soprattutto dal fatto che sono immersi in una comprensione a ben più ampio spettro del mondo nel quale l’arte stessa è calata. Hegyi è dunque un pensatore che, diremo per semplicità, rimanda all’Umanesimo più che all’iper-specializzazione di questi nostri tempi.
È esattamente per questa ragione che,
faute d’espace, ci occuperemo della prima delle due parti di cui si compone il volume, la seconda (
Cambiamento della Narrativa) essendo costituita da incursioni più avanzate in territori quasi monografici, si tratti di
Lucio Fontana o
Piero Manzoni, di
Yves Klein o
Günther Brus. Non che manchino tali approfondimenti nelle prime pagine, dedicate al
Paradigma Mitteleuropa, ma sono inserite in un contesto di maggior respiro, e innanzitutto sostengono una tesi più originale rispetto a quella, diremo ancora per semplicità, troppo genericamente lyotardiana della seconda parte.
Prendendo a modello l’area mitteleuropea, Hegyi riflette così su alcuni caratteri propri della nostra epoca, ossia “
una sensibilità immanente, antigerarchica e in un certo senso melanconica”.
Ma ci pare più interessante, per chi in quell’area non è nato né vissuto, comprenderne le caratteristiche precipue. In ciò la guida di Hegyi è basilare. Quando, innanzitutto, sottolinea come il problema dell’
identità – in Paesi ove i sistemi valoriali sono frutto di elaborazioni “calate dall’alto” – è ipersensibile, sfociando spesso in un eroismo patetico che accomuna la vita del singolo e del popolo. Di conseguenza, il ruolo dell’intellettuale – e quindi dell’artista – diviene prometeico, di enorme e amplissima portata. Ma tale
compito dai tratti profetici non potendo essere portato a termine, specie quando – direbbe Gramsci – l’intellettuale non è “
organico” al sistema politico, il rovescio della medaglia reca in effigie l’isolamento e il rifugio in “
mitologie private” (gli esempi più lampanti sono gli atelier di
Karel Malich a Praga e di
György Jovánovics a Budapest).
Il campo in cui opera l’artista mitteleuropeo è insomma iper-ideologizzato. Ne consegue che la storia e la sua filosofia assumono un’importanza spropositata, ma soprattutto miscelano cieco progressismo al fatalismo più irrazionale e immobilizzante. In questo senso, l’unica via d’uscita – praticata da artisti quali
Miroslav Balka,
Katarzyna Kozyra e
László Fehér – consiste nell’esemplarizzare la (propria) vita individuale e, in tal modo, cangiarla in (metafora d’) arte. Col rischio, per usare un eufemismo, di non storicizzare gli eventi, ma di appropriarsene in maniera soggettivistica.
Naturalmente, gli spunti di riflessione offerti da Hegyi non si limitano a ciò. Almeno ne vanno accennati un paio d’altri, utili per inquadrare il
fenomeno Mitteleuropa.
In primis, quest’ultima è sì un esempio importante di multiculturalismo, ma va tenuto a mente che si tratta d’una “
coesistenza forzata”; in secondo luogo, se da un lato i Paesi dell’area presentano “
modelli concettuali molto simili” (e ciò è valido anche per l’Austria, così come per i Paesi dell’area centro-orientale dell’Europa pure prima della “spartizione” del secondo dopoguerra), dall’altro non si può etichettare la Mitteleuropa come un insieme omogeneo.
Hegyi ribadisce con forza e insistenza tali differenze, sino a scrivere che “
esistevano più limitazioni per quanto riguarda gli scambi culturali tra i Paesi socialisti
di quante non ne esistessero tra Polonia e Ungheria e l’Occidente”. Come sempre, dalla trasparenza dell’acqua nascono le infinite sfumature dell’arcobaleno.