Da qualche mese ormai Electa ha dato vita a una collana composta da divagazioni colte su temi di storia dell’arte, si tratti di
Picasso a Roma o della
Camera degli Sposi di
Andrea Mantegna. Una collana che prende spunto dai
Pesci rossi di
Matisse o, meglio, dallo stile che adottò Emilio Cecchi nel 1920 per raccontare quel quadro e la mostra che l’ospitava. Piccoli e preziosi volumi, con testo in forma di elzeviro, accompagnato da illustrazioni a tutta pagina che conquistano la seconda parte del libro.
Non s’avrà dunque a male Luigi Ficacci, l’autore di questo
Francis Bacon e l’ossessione di Michelangelo, se in primo luogo si darà un’occhiata alle figure. Che subito danno corpo senza tema di smentita alla tesi espressa nel titolo, o almeno a uno dei significati che quest’ultimo reca in sé, data l’ambigua forma genitiva (ci riferiamo, per chiarire, all’ossessione che
Francis Bacon aveva nei confronti di
Michelangelo).
Basterà osservare anche senza eccessiva attenzione due coppie di pagine: l’una riproducente il
Painting (1950) conservato a Leeds e lo
Schiavo morente (1513-16 ca.) del Louvre; l’altra col
Profeta Giona (1511) sulla Cappella Sistina e la
Reclining Woman (1961) della Tate.
Non staremo qui a enumerare e disquisire di analogie e differenze, richiami e mancate risposte; poiché ottimamente lo fa Ficacci, con acume e ampi riferimenti bilingue alle parole dello stesso Bacon, nonché con una scrittura sintatticamente stratificata, quasi che il riferimento a Cecchi sia un salto all’indietro di quasi un secolo anche nella lingua.
Quanto all’interesse di Bacon per Michelangelo, è cosa assai nota oltre che piuttosto evidente all’occhio. Si pensi a Figure in Movement (1976), dove il corpo (i corpi?) è ritratto in piena fase di accoppiamento e/o combattimento (con sé stessa?). Un esempio mirabile della fusione, nell’archivio mnestico baconiano, di Michelangelo ed
Eadweard Muybridge (diceva lo stesso Bacon: “
In realtà, Michelangelo e Muybridge si combinano nella mia mente, in modo che ho appreso da Muybridge qualcosa sulle posizioni, e da Michelangelo qualcosa sull’ampiezza, la grandiosità della forma”), delle fotografie da rotocalco sportivo e degli esperimenti stroboscopici dei futuristi. Espressa al massimo livello è qui la capacità di rendere scultoree le figure; e tuttavia, la massività è controbilanciata da un ambiente circolare che pare sospeso nel vuoto, ove incombe minacciosa una Furia.
La struttura tubolare che ingabbia i corpi acuisce il senso di disagio e tensione scaturenti dal dipinto; le frecce e i tondi ingrandiscono alcuni particolari del corpo. Una tela, insomma, che pare una precisa
stenografia dei temi baconiani.
Difficile allora condividere quanto scriveva Mario Praz: “
Se qualcosa manca all’arte inglese è l’ardire, l’esasperazione di un Michelangelo, di un Grünewald, di un Rembrandt, di un El Greco, di un Goya”. Il “divino anglista” prosegue: “
Nessun inglese ha mai dipinto l’equivalente del ‘Bue squartato’ di Rembrandt, e le larve del contemporaneo Francis Bacon son pallide cose in confronto a quelle di Goya”.
Non esasperazione ma disperazione vi ritrova Ficacci: “
L’arte di Bacon rivela un Michelangelo cui sia stata sottratta l’idea della salvezza in Dio come esito dello sforzo di trascendenza dalla materia, lasciando la lotta come condizione disperata dell’esistenza”. Dall’esistenza all’esistenzialismo il passo è breve. Passo che Ficacci non esita a fare, passo che però vorrebbe superare un baratro invalicabile, almeno nel caso di Bacon.
Poiché resta ancora tutto da provare il coinvolgimento dell’irlandese con questioni est-etiche che di norma si fanno risalire alla riflessione di Sartre. Dall’esistenza all’esistenzialismo, il passo è falso più che breve.