È percorso da una profonda contraddizione interna l’ultima prova della coppia Dal Lago-Giordano, a tal punto che l’
Introduzione, ossia la parte più teorica del libro, invalida i tre capitoli successivi, dei quali si sostanzia il libro. O viceversa.
Nelle prime pagine gli autori paiono infatti sposare la cosiddetta teoria istituzionale dell’arte. Per riassumere: se “
tra il mero produttore di cose e l’artista” non v’è un divario incolmabile, bensì “
uno spazio continuo”, ciò che distingue il primo dal secondo è una complicata miscela di “
condizioni cognitive e sociali”. In altre parole, l’estetica cede il passo a un mutevole quadro normativo, che per semplicità diremo governato dall’
artworld e che incornicia l’opera e il suo produttore, appioppando loro l’etichetta “arte”.
Una posizione che si scontra non solo con certi ambiti accademici (Maurizio Ferraris, per citare un esempio chiamato esplicitamente in causa), ma anche con alcune frange critico-curatoriali (Francesco Bonami, anch’egli nominato da Dal Lago e Giordano). D’altro canto, una tale tesi rischia sempre di cedere al sociologismo, liquidando in maniera piuttosto sbrigativa oltre tre secoli d’estetica moderna (“
sono proprio i conflitti e le divergenze critiche sul riconoscimento a mostrare la dimensione squisitamente sociale delle definizioni dell’arte”).
Proprio sul limitare delle pagine introduttive emerge la prima incrinatura, che diverrà faglia nel corso del volume. Secondo gli autori non si tratta infatti di sostenere un “
relativismo an-estetico”, bensì di farsi sostenitori dell’artisticità di quegli ambiti esclusi dalle “
guardie confinarie dell’esclusivismo estetico”. La domanda che sorge è semplice: se la definizione dell’arte è il frutto, cangiante nel tempo e nello spazio, di una complicata chimica sociale; se tale congerie di condizioni traccia una cornice che non è affatto relativista (è relativa, ma non ne ha coscienza o non ammette pubblicamente di esserlo) ma ch’è pur sempre arbitraria (insomma, assomiglia parecchio a un segno saussuriano); allora come si può sostenere che questo stesso quadro espella ingiustamente dalla propria cornice ambiti quali gli ex voto, la street art e l’art brut (ammesso e non concesso che li respinga realmente)?
L’arbitrarietà è una categoria assai differente dall’autoritarismo. Soprattutto non prevede una distinzione “etica” fra giusto e ingiusto. Delle due l’una: o si accetta la teoria istituzionale dell’arte – e dunque il fatto che i confini esistono e sono netti, pur cangiando rapidamente quando ci si muove nello spazio e/o nel tempo – oppure si fa critica d’arte militante, e allora si contesta la non troppo velata pacificazione insita nella suddetta teoria. Tanto più che gli autori, discutendo di ex voto, street art e art brut, diffusamente accampano giustificazioni squisitamente estetiche per sostenere quelle tre forme espressive; altrettanto spesso e volentieri citano esempi di tangenze più o meno ampie con l’arte più “riconosciuta” (fra i molti esempi:
Yves Klein e
Adrian Paci per gli ex voto,
Diego Rivera e
Pollock per la street art,
Schwitters e
Boccioni per l’art brut); infine, talora adottano le medesime pratiche d’esclusione di cui accusano l’
artworld, come quando tentano di suddividere gli autentici artisti di strada da coloro che sono stati “riassorbiti” dal “sistema”.
Due puntualizzazioni per concludere: la mostra
Street Art Sweet Art tenutasi nel 2007 al Pac di Milano è un’iniziativa distinta dalle considerazioni del 2006 di Sgarbi sui graffiti del Leoncavallo; gli
01.org sono realmente una coppia, al di là del fatto che si chiamino o meno
Eva & Franco Mattes.