Si apre e si chiude con due lunghe interviste di Benjamin
H. D. Buchloh a
Gerhard Richter, datate rispettivamente 1986 e 2004, la monografia
dedicata al tedesco dalla collana
October Files. Una collana che, com’è evidente
dal nome, è frutto dell’impegno degli studiosi raccolti intorno alla
celeberrima rivista e che finora ha sfornato dieci volumi, contando quello su
Richard
Hamilton,
curato da Hal Foster e la cui
uscita è prevista per il prossimo marzo. Va da sé che i libri raccolgono in
parte articoli pubblicati sulla stessa rivista e sono concepiti per indagare
l’opera di artisti del secondo dopoguerra che “
have altered our
understanding of art in significant ways, and they have prompted a critical
literature that is serious, sophisticated, and sustained”.
“Sofisticata” è senza dubbio l’intervista del 1986, nella
quale emerge con forza un approccio che non esitiamo a definire “aggressivo” da
parte di Buchloh. Il quale recita in completo agio la parte del critico che in
ogni modo tenta di forzare l’interpretazione delle opere, anche quando
l’artista lo smentisce. È un corpo-a-corpo ermeneutico che, se sulle prime può
sembrare addirittura ridicolo, ha per lo meno il pregio di sottolineare il
fatto che l’artista non sempre – e nemmeno spesso – ha il polso della propria
opera e della sua lettura.
Si comincia dunque con l’
impressione di Richter in visita alla
Documenta del 1958, quando vede per la prima volta i lavori di
Pollock e
Fontana. Effetto di ben altro genere gli
fa
Manzoni, un
“
commentary”
che “
non era pittura”. Ma, d’altro canto, Richter sottolinea la sua distanza dalla
pittoricità incarnata da un
Cézanne (è quel che Hal Foster, nel suo saggio, definisce “
desublimazione
della pittura”,
mentre Sianne Ngai arriva a coniare il neologismo “
stuplime”, crasi di ‘
stupid’ e ‘
sublime’, in riferimento all’
Atlas di Richter), ed è per ciò che una
delle costanti nel suo lavoro è la pittura realizzata a partire da fotografie
(in bianco e nero, perché più “
dirette” e “
inartistiche”). Ed è proprio su questa
presunta contraddizione – quella fra l’attrazione di
Fluxus e
Warhol da un lato e la pratica pittorica
dall’altra, fra un “
impulso anti-estetico” e la posizione “
pro-pittura” mantenuta nel corso degli anni,
che si acuisce il diverbio fra intervistatore e intervistato.
E se l’esito più scontato che si potrebbe immaginare è una
“deriva” verso l’astrazione, Richter ancora una volta stupisce: sia per le sue
critiche a quest’approccio (“
arte devozionale”, la definisce) che per l’aver
effettivamente realizzato parecchi dipinti che è arduo non definire astratti –
per non dire dei monocromi -, sebbene sia noto soprattutto per le sue opere
“figurative”. Un’aporia che probabilmente è, se non risolta, almeno
“illustrata” dal seguente
statement relativo al ruolo che il caso gioca nei suoi lavori: “
It’s
a chance that is always planned, but also always surprising”.
È ancora Foster a sintetizzare
chiaramente la questione: “The debasement of pictorial content on the ne
hand, the preservation of pictorial form on the other, renders his painting
intensely ambiguous, at once critical and formal, critical because formal”. In altre parole, Richter supera
queste distinzioni categoriali, in direzione della “
semblance”, che non è la somiglianza
rappresentativa e nemmeno la sua negazione astrattiva: “
Semblance
comprehends both modalities”, scrive ancora Hal Foster, “
because it concerns the very nature
of appearance, and it is the phenomenon taht concerns Richter above all else”.
Parafrasando e rispondendo ad Adorno, è ancora possibile
fare pittura dopo Auschwitz.