Georges Didi-Huberman innesca
Il gioco delle evidenze con una domanda pericolosa. Un
ludus dalle regole complesse e di non facile comprensione senza un libretto delle istruzioni. Ossia un buon manuale di arte del XX secolo come riferimento da tenere accanto e i volumi che consiglia durante la lettura. Da buon filosofo, Didi-Huberman lancia subito il primo dado della partita, chiedendosi “
perché quando vediamo ciò che è davanti a noi, qualcos’altro ci riguarda, sempre, per imporci un in
, un dentro
?”. Riprendendo i temi affrontati durante due conferenze tenute nel 1991 al Museo di arte moderna di Saint-Étienne e al Pompidou, permane il tono colloquiale anche nella versione italiana per la collana “Le Terre/Arte” a cura di Stefano Chiodi.
Secondo un uso leonardesco, l’autore realizza una veduta a volo d’uccello, affrontando il tema dell’oggetto-manufatto umano codificato come appartenente alla categoria generale di “arte contemporanea” e poi a quella più specifica di “arte minimalista”. Proponendo così un’analisi sulla dialettica del guardare in rapporto alle opere d’arte, attraverso il tempo e con le dovute differenziazioni avvenute nei secoli.
Il giocatore si sofferma inizialmente sugli oggetti che suscitano una reazione nell’osservatore per i significati intrinseci e per i rimandi a cui ogni singolo individuo è portato, come accade a Stephen Dedalus nell’
Ulisse di Joyce, paragone letterario scelto dall’autore in quella visione d’insieme che porta allo scoperchiamento delle tombe nei dipinti di
Beato Angelico. Storia dell’arte moderna occidentale intesa come storia della religione cristiana, che trova risposta al primo quesito mostrando il
non-visto, ossia lasciando immaginare, raffigurando la
perdita -termine importante per lo studioso- di quello che c’era. Quest’arte risolve attraverso l’atto di fede un problema esistenziale che afferisce anche alla sfera dei sentimenti, prevalentemente tragici come l’ineluttabile destino dell’uomo, suscitato maggiormente alla vista di una tomba e, in questo caso, proprio davanti al sepolcro del Cristo morto il senso della perdita della cosa veduta si fa tangibile.
Ma un atto di fede ferma il gioco, mentre il filosofo procede sulla casella della Minimal Art. Dopo i primi due capitoli di riscaldamento, la partita prende ritmo e
la dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea (il sottotitolo del libro) riporta l’opinione di
Donald Judd e
Robert Morris, che negli anni ’60 realizzano un artefatto dotato di un volume che sia visto solo per quello che è, un oggetto “
specifico”. Intervengono i materiali usati -ferro, acciaio, rame-, vengono eliminati i dettagli che possano distrarre dalla forma pura, affinché si abbia “
art without feeling” e, come dice Judd, solo “
what you see is what you see”.
Per uscir fuori dalla pura tautologia, entra in campo Michael Fried, che nel 1967 preferisce la definizione di arte “
letteralista” a discapito di “minimal”, e aggiunge il fattore teatralità nella non-specificità degli oggetti minimalisti. La relazione tra questi oggetti e gli sguardi è quindi una semplice messa in scena, che invece per Didi-Huberman si risolve davanti al
Black Box di
Tony Smith. Raccontati come una favola, la scoperta della scatola nera e i suoi successivi sviluppi come
We lost portano alla conclusione di una rappresentazione della perdita che in Smith genera un movimento all’interno dell’opera stessa.
Il percorso termina nell’alveo dell’aura di Walter Benjamin, che risolve attraverso un iconismo insito nell’uomo e fatto di rimandi alla forma ancestrale, come l’associazione tra il
Pine Portal di Morris del ’61 con un sarcofago del I secolo d.C. La fine della partita è quasi un
carpe diem, quando “
ce que nous voyons” diviene “
ce qui nous regarde”.