Nel 2005 Olav Velthuis pubblicava, per la Princeton
University Press,
Talking Prices. Symbolic Meanings of
Prices on the Market for Contemporary Art. Nello stesso anno, per i tipi del Nai di Amsterdam,
usciva
Imaginary economics, ora proposto da Johan & Levi come seconda uscita
della collana
Arte/Economia diretta da Pier Luigi Sacco.
Che gli artisti si siano sovente interessati al rapporto
fra arte ed economia non è una novità persino in Italia, dove lo stesso Sacco –
insieme a Marco Senaldi – ha per esempio curato la mostra
Interessi zero! alla Civica di Trento, proprio
nel 2005. Dunque, la proposta di ribaltare le posizioni e considerare “
l’arte
contemporanea come fonte di conoscenze sull’economia” non è inedita, ma senz’altro
avrebbe potuto sollevare spunti di riflessione.
Usiamo il condizionale perché Velthuis promette più di
quanto mantenga. Al di là della ridondanza degli esempi offerti – in molti casi
pleonastici – il
bug teorico sta probabilmente nella premessa, ossia che l’
imaginary
economics costituisca un’alternativa all’Economia con la E maiuscola.
Il problema è che,
fatta salva la diffusione (quasi) globale del capitalismo, non risponde al vero
l’affermazione che la “
dottrina economica scientifica” è un “
monopolio dominato da
un’unica linea di pensiero”, quella neoliberale.
Ma cos’è l’economia immaginaria? Secondo Velthuis, assume
tre forme: negli anni ’70 è di natura critica e ipotizza che “
la logica
qualitativa delle arti e la logica quantitativa dell’economia siano
incompatibili”;
negli anni ’80 è ratificante, ossia predica la compatibilità delle due logiche,
e, nella seconda metà dei ’90, giustifica quest’assunto sulla base della “
culturalizzazione” dell’economia; infine, la terza
forma “
elude la dicotomia critica/ratifica” con lo strumento del
gioco.
Quali sono le valutazioni dell’autore? La prima variante,
quella oppositiva, si farebbe “
troppo facilmente travolgere dal gorgo del
mondo dell’arte, che tutto neutralizza, e perde quindi la sua valenza critica”. La seconda, quella mimetica,
darebbe invece alla luce opere caratterizzate da “
esaltazione”, “
assenza di umorismo” e “
incapacità di mettere le
cose in prospettiva”,
“
decisa a sradicare qualunque tensione possa esistere fra arte ed economia
capitalistica”. Posizione
che deriva più da un
a priori ideologico che da un ragionamento socio-economico. Nella
sua forma più recente, la ratificazione poggia, come s’è detto, sulla
culturalizzazione dell’economia. Quest’ultima ha cioè avvicinato l’arte,
essendo sempre più produzione di beni
simbolici; si tratta dunque, almeno in
linea tendenziale, di una convergenza. Ma “
l’economia ha davvero bisogno del
supporto degli artisti?”, si chiede scettico Velthuis. La risposta è sì, per essere
tranchant (non possiamo che rimandare alla
ben più ragionata argomentazione
di Sacco nella postfazione).
La variante ludica riscuote l’approvazione più decisa da
parte dell’autore, con artisti intenti a “
imitare e parodiare i processi
economici, estrapolandoli dai loro contesti e rivelandone così l’assurdità”. Tuttavia, il maggior grado
d’interesse suscitato da tali proposte scaturisce forse dal fatto che operano
ai nostri stessi giorni e nel nostro stesso ambiente. Detto altrimenti, anche
nelle altre varianti venivano sollevate “
domande fondamentali”, ma interrogavano contesti ora
in gran parte scomparsi.
È insomma un problema di prospettiva storica. Un problema
che affligge da sempre i sociologi, troppo spesso talmente distratti dalla
contemporaneità da farsi schiacciare dal grave della storia.