La disumanizzazione dell’arte di Josè Ortega y Gasset –corredato da una prefazione di Edmondo Berselli (La ribellione delle arti) e da una postfazione di Elena Del Drago (Fuori dal dominio)– consta di tredici paragrafi nei quali l’autore inanella le proprie tesi. Un breve pamphlet sufficiente per evidenziare la capacità dell’autore di intravedere le potenzialità di uno studio dell’arte dal punto di vista sociologico, anticipando di una trentina d’anni la storia sociale dell’arte. Con i dovuti distinguo, poiché Ortega y Gasset non stabilisce correlazioni tra forme di organizzazione sociale e tendenze artistiche, ma si limita ad analizzare il rapporto del pubblico con le opere.
L’intera struttura argomentativa del libretto prende avvio e si fonda sull’osservazione di una disposizione sostanzialmente unanime da parte della società/pubblico nei confronti delle arti giovani nel loro complesso. In altre parole, il filosofo assume la constatazione dell’impopolarità, anzi dell’antipopolarità delle arti giovani come indizio decisivo per individuare il carattere comune e fondamentale della ricerca artistica dell’inizio del XX secolo. E conclude che tale carattere risiede nel rifuggire da ogni possibile forma di immedesimazione del fruitore nell’opera d’arte, nell’abolizione di “contenuti umani” -siano essi la rappresentazione di figure in pittura o la messa in musica di drammi e passioni- per tendere invece a un’arte artistica, il cui senso interamente estetico risiede nella contemplazione. Per buona parte del libro, l’autore si dedica ad argomentare in favore di un’arte artistica dunque, di un’arte che non può ripetere le forme del passato, mostrandosi sostanzialmente solidale con gli artisti giovani. Nel far ciò, con grande lucidità riesce a individuare una serie di caratteristiche fondanti dell’arte di quell’inizio secolo.
Tuttavia Ortega costruisce anche una frode, porta avanti un trucco argomentativo, poiché limitandosi a cercare “di estrarre la […] tendenza” dell’arte nuova, non pronunciandosi su quel che pensa delle realizzazioni di “questo stile nascente”, può scoprire le sue carte solo al termine, dichiarando: “Si dirà che l’arte nuova non ha prodotto finora niente che meriti la pena, e io mi sento assai incline a pensare la stessa cosa”.
È ancora in chiusura del testo che il filosofo presenta, e
Nascono allora due interrogativi conclusivi: l’impopolarità o antipopolarità delle arti di inizio secolo non era forse da considerarsi un fenomeno transitorio piuttosto che essenziale, legato cioè ai tempi di accettazione del nuovo? Era ed è quell’arte intrascendente? Per rispondere a quest’ultima domanda lascerei la parola a Pablo Picasso: “Les Demoiselles sono state il mio primo dipinto di esorcismo. È allora che ho capito che quello era il senso stesso della pittura. Non si tratta di un processo estetico. E’ una forma di magia che si interpone fra l’universo ostile e noi, un modo di prendere il potere imponendo una forma ai nostri terrori come ai nostri desideri. Il giorno in cui l’ho capito, ho saputo che avevo trovato la mia strada”.
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