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03
novembre 2008
libri_saggi La pittura incarnata (il saggiatore 2008)
Libri ed editoria
Un saggio sulla pittura, sul suo oggetto e sulle sue condizioni di possibilità. E un commentario appassionato di quell’episodio della Commedia umana di Balzac che al paradosso della rappresentazione dà voce in una vertiginosa narrazione. Torna Didi-Huberman...
Georges Didi-Huberman, storico dell’arte, filosofo e saggista prolifico, insegna all’Ehess di Parigi. Questo testo, del quale Il Saggiatore ha pubblicato di recente l’edizione italiana, risale al 1984; si tratta della collezione apparentemente rapsodica di riflessioni sulla pittura, il cui fil rouge è costituito dal costante riferimento al Capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac.
“La causa finale della pittura è un andare oltre la pratica della pittura”: questa citazione accorda l’intonazione del saggio di Didi-Huberman, dà la misura o, dovremmo dire meglio, la dismisura dei temi che intende affrontare. In gioco è l’esercizio fatale di un oltrepassamento che coinvolge tanto il soggetto quanto l’oggetto della rappresentazione, entrambi destinati a collassare nell’istante mortifero del loro reciproco scambio di sguardi. Alla prosa di Balzac, ma anche al mito (è lo stesso Balzac a suggerire la prossimità del protagonista del racconto alle figure di Orfeo e Pigmalione), alla filosofia e alla psicoanalisi, Didi-Huberman lascia continuamente la parola nello sforzo di dire ciò che l’arte da un lato e il pensiero dall’altro tentano da sempre di perlustrare: l’abisso che separa la vita dalla rappresentazione.
L’incarnato è l’ossessione di Frenhofer, il pittore protagonista del Capolavoro sconosciuto, alle prese da dieci anni con il ritratto di una donna d’incomparabile bellezza, oggetto ideale della contesa tra pittura e natura, che gareggiano per assegnarsi il merito di una simile creazione. Frenhofer è il pittore geniale e folle nel quale questa lotta ha luogo, la coscienza lacerata e dubbiosa sempre sull’orlo della disperazione. Non a torto Didi-Huberman legge nella sua esperienza il dramma del soggetto moderno, sempre a rischio di perdersi, di sfaldarsi e naufragare nella propria costitutiva infondatezza.
Frenhofer affida la propria sopravvivenza in quanto soggetto alla vita della donna del quadro, alla possibilità di donarle la capacità di ricambiare il proprio sguardo, e si perde nel graduale approssimarsi di quest’evento. Fino alla disperazione, quando, credendo di aver completato la propria opera, di fronte a sé non vede più la donna, ma una “muraglia di pittura”, una nebbia informe, sotto la quale la donna sembra giacere sepolta. Unica traccia, unico sintomo di quella vita sepolta, è il dettaglio perfetto di un piede, “un piede vivo” che emerge in rilievo sullo sfondo del caos di colori.
Dettaglio realista e opacità degli strati accatastati di pittura. Disegno e colore. Questi sono i poli in tensione che animano il racconto di Balzac. Didi-Huberman si sofferma su ciascuno di essi, descrivendo la vertigine che travolge il soggetto e l’oggetto della rappresentazione nel momento in cui si comprende che il rapporto mimetico tra arte e natura dev’essere ripensato in termini di reciproca incarnazione.
Il racconto di Balzac si chiude con la sparizione del soggetto pittore e del soggetto del quadro (Frenhofer muore, forse suicida, e i suoi dipinti vengono dati alle fiamme). Frenhofer cercava l’incarnato e ha sacrificato l’aspetto: l’effetto è quello di una “delusione figurale”, scrive Didi-Huberman, denunciata da quel “piede delizioso” che della figura desiderata, promessa e infinitamente rimandata, dichiara l’impossibilità, se non a patto della sua quasi totale sfigurazione.
Come la vicenda umana di Frenhofer, anche il saggio di Didi-Huberman procede fino alla fine per rovesciamenti, antitesi e smentite, e l’impressione è quella di una scrittura impregnata della complessità e dell’indecidibilità del suo oggetto. Così, seppure a costo di alcune difficoltà di lettura, quel che emerge è un saggio capace di affrontare le problematiche che da sempre assillano la riflessione sull’arte, dando conto al tempo stesso del punto di vista tardo moderno dal quale esse vengono di volta in volta inquadrate.
“La causa finale della pittura è un andare oltre la pratica della pittura”: questa citazione accorda l’intonazione del saggio di Didi-Huberman, dà la misura o, dovremmo dire meglio, la dismisura dei temi che intende affrontare. In gioco è l’esercizio fatale di un oltrepassamento che coinvolge tanto il soggetto quanto l’oggetto della rappresentazione, entrambi destinati a collassare nell’istante mortifero del loro reciproco scambio di sguardi. Alla prosa di Balzac, ma anche al mito (è lo stesso Balzac a suggerire la prossimità del protagonista del racconto alle figure di Orfeo e Pigmalione), alla filosofia e alla psicoanalisi, Didi-Huberman lascia continuamente la parola nello sforzo di dire ciò che l’arte da un lato e il pensiero dall’altro tentano da sempre di perlustrare: l’abisso che separa la vita dalla rappresentazione.
L’incarnato è l’ossessione di Frenhofer, il pittore protagonista del Capolavoro sconosciuto, alle prese da dieci anni con il ritratto di una donna d’incomparabile bellezza, oggetto ideale della contesa tra pittura e natura, che gareggiano per assegnarsi il merito di una simile creazione. Frenhofer è il pittore geniale e folle nel quale questa lotta ha luogo, la coscienza lacerata e dubbiosa sempre sull’orlo della disperazione. Non a torto Didi-Huberman legge nella sua esperienza il dramma del soggetto moderno, sempre a rischio di perdersi, di sfaldarsi e naufragare nella propria costitutiva infondatezza.
Frenhofer affida la propria sopravvivenza in quanto soggetto alla vita della donna del quadro, alla possibilità di donarle la capacità di ricambiare il proprio sguardo, e si perde nel graduale approssimarsi di quest’evento. Fino alla disperazione, quando, credendo di aver completato la propria opera, di fronte a sé non vede più la donna, ma una “muraglia di pittura”, una nebbia informe, sotto la quale la donna sembra giacere sepolta. Unica traccia, unico sintomo di quella vita sepolta, è il dettaglio perfetto di un piede, “un piede vivo” che emerge in rilievo sullo sfondo del caos di colori.
Dettaglio realista e opacità degli strati accatastati di pittura. Disegno e colore. Questi sono i poli in tensione che animano il racconto di Balzac. Didi-Huberman si sofferma su ciascuno di essi, descrivendo la vertigine che travolge il soggetto e l’oggetto della rappresentazione nel momento in cui si comprende che il rapporto mimetico tra arte e natura dev’essere ripensato in termini di reciproca incarnazione.
Il racconto di Balzac si chiude con la sparizione del soggetto pittore e del soggetto del quadro (Frenhofer muore, forse suicida, e i suoi dipinti vengono dati alle fiamme). Frenhofer cercava l’incarnato e ha sacrificato l’aspetto: l’effetto è quello di una “delusione figurale”, scrive Didi-Huberman, denunciata da quel “piede delizioso” che della figura desiderata, promessa e infinitamente rimandata, dichiara l’impossibilità, se non a patto della sua quasi totale sfigurazione.
Come la vicenda umana di Frenhofer, anche il saggio di Didi-Huberman procede fino alla fine per rovesciamenti, antitesi e smentite, e l’impressione è quella di una scrittura impregnata della complessità e dell’indecidibilità del suo oggetto. Così, seppure a costo di alcune difficoltà di lettura, quel che emerge è un saggio capace di affrontare le problematiche che da sempre assillano la riflessione sull’arte, dando conto al tempo stesso del punto di vista tardo moderno dal quale esse vengono di volta in volta inquadrate.
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Il gioco delle evidenze di Georges Didi-Huberman
giulia matteucci
la rubrica libri è diretta da marco enrico giacomelli
Georges Didi-Huberman – La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente
Il Saggiatore, Milano 2008
Pagg. 165, € 22
ISBN 9788842812616
Info: la scheda dell’editore
[exibart]