Vuoi per il tecnicismo delle argomentazioni, vuoi per l’impostazione teorica che intreccia gli interessi epistemologici e ontologici a una profonda conoscenza della storia dell’arte, la produzione filosofica di Danto è stata finora tenuta perlopiù ai margini del dibattito estetico italiano. Questa tendenza comincia oggi a invertire visibilmente la propria rotta e l’edizione di
The Transiguration of the Commonplace a cura di Stefano Velotti rappresenta, a questo proposito, una tappa saliente.
Danto, la cui carriera accademica è legata dal 1952 alla Columbia University, concentra i suoi sforzi di teorico su tematiche tanto vaste quanto eterogenee, non sempre direttamente legate all’ambito dell’arte. È facile riconoscere, tuttavia, nelle sue oscillanti propensioni (teoria della conoscenza e filosofia della storia, teoria dell’arte e filosofia del linguaggio) un unificante e prevalente interesse per la questione della
rappresentazione. Più in generale, per l’insieme delle modalità che descrivono il complesso rapporto tra l’uomo, “
ente rappresentante” per eccellenza, e il proprio mondo.
Da questo punto di vista, l’arte costituisce un ambito privilegiato per l’indagine della funzione intermediaria svolta dalla rappresentazione; ed è proprio sul rapporto fra arte e realtà che Danto concentra coraggiosamente e rigorosamente questo saggio dell’inizio degli anni ‘80.
Esso raccoglie i frutti di oltre quindici anni di lavoro di rielaborazione delle riflessioni presentate per la prima volta in un articolo del 1965 dal titolo
The Artworld, una vera e propria “
reazione filosofica” all’esposizione di
Brillo Box di
Warhol alla Stable Gallery di New York.
L’obiettivo che Danto persegue è quello, inviso tanto alla tradizione filosofica analitica quanto a quella continentale, di fornire una definizione dell’
essenza dell’opera d’arte. Le scatole di
Brillo riprodotte da Warhol, sulle quali Danto non smette di meditare, avevano sollevato con un’incisività senza precedenti una domanda dirimente: nel caso di due oggetti
percettivamente indiscernibili, cosa rende uno di essi un’opera d’arte? A quali condizioni il banale e il quotidiano possono essere
trasfigurati in opere d’arte?
Il saggio di Danto s’impegna a fornire una risposta a questo cruciale quesito. L’argomentazione individua nelle
proprietà relazionali il discrimine tra il mondo delle mere cose e quello delle opere d’arte, ma è proprio nell’intercettazione di tali proprietà che si mostra tutta la complessità dell’impresa.
La scrupolosa struttura argomentativa di questo testo, spesso alleggerita dall’incursione di descrizioni di opere dai toni intimi e autobiografici, pone l’accento su alcune nozioni chiave. Ci limitiamo a segnalare quella più significativa e densa di conseguenze teoriche: la nozione di
aboutness, l’essere a-proposito-di (questa la traduzione proposta dal curatore) che contraddistingue, nell’architettura del saggio di Danto, la struttura di un’opera d’arte e ne definisce il carattere relazionale; la sua dipendenza, cioè, dall’esistenza di un mondo dell’arte capace di riconoscerla come tale e da un’interpretazione che ne disveli il
significato.
Rispetto alla categoria di
aboutness, le proprietà
estetiche (la bellezza, per esempio) recedono allo statuto di proprietà secondarie, condizioni non necessarie, cioè, all’identificazione dell’essenza di un’opera d’arte. Tuttavia, proprio su quest’ultimo aspetto le posizioni dell’autore si dimostrano sfumate, non definitive dunque, ma aperte a continui e produttivi ripensamenti.