Categorie: Libri ed editoria

libri_saggi | L’arte contemporanea e il suo metodo | (neri pozza 2005)

di - 14 Novembre 2005

È in uscita il tuo libro “L’arte contemporanea e il suo metodo” per Neri Pozza. I temi che vai a enucleare sono parecchi e probabilmente la ricezione del tuo testo sarà controversa. Per qualche tempo sei stato assente dalla scena, perché rientrarci in un modo così plateale e al contempo “accademico”?
Non sono mai stato un presenzialista, ma non credo di essere stato assente. Ho letto, scritto, visto mostre e visitato gli studi degli artisti con una certa regolarità. Ho anche curato monografie o cataloghi [fra gli altri, Chuck Close, Starn Twins, Jonathan Lasker, Vik Muniz, n.d.r.]. Non pensavo che questo libro potesse essere visto come un ritorno “plateale” e “accademico”. Però, in effetti, considero l’arte attuale plateale e accademica, quindi, probabilmente, la mia scelta è in sintonia con lo spirito del tempo. L’arte attuale è accademica perché si rifà a linguaggi che si sono sviluppati a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi trent’anni del Novecento, non guarda avanti; è plateale perché usa sovente lo scandalo per promuoversi attraverso i media di massa.

Nel libro c’è ovviamente una valutazione quest’arte “attuale”…
Gli artisti degli anni Novanta mi piacciono, non tutti, ma quei pochi che mi piacciono li amo davvero. Aspetto di sapere cosa farà Cattelan con la stessa ansia con cui aspetto le nuove puntate di CSI; mi emoziono dinanzi alla bellezza delle scene di Barney, mi commuovo per la religiosità di Hirst e per il modo in cui si rapporta al cristianesimo, ma ciò non mi impedisce di capire che non sono artisti d’avanguardia. Anzi, loro sono gli artisti “ufficiali”, quelli sostenuti dal sistema. Non a caso rappresentano i propri Paesi nelle mostre istituzionali. Rapportando il linguaggio delle loro opere a quello dell’arte d’inizio secolo scorso, questi artisti hanno operato un vero e proprio ritorno all’ordine.

Tornando al libro. Il tuo approccio reagisce in maniera radicale alla critica che, per semplicità, potremmo definire “postmoderna” e che ritieni farraginosa. In qualche modo torni a un approccio storico-sociologico, mi viene addirittura in mente Hauser. O, meglio, Arthur C. Danto, le cui tesi non sono certo condivise universalmente (Kosuth lo accusa quasi di plagio nei suoi confronti!)
Non vedo nessun motivo valido per cui un saggista debba oggi usare un linguaggio fumoso. Hauser lo trovo complesso, ma interessante, Arthur C. Danto lo stimo molto. L’ho sempre amato, sia come scrittore che come persona. Ho pubblicato come editore in Italia il suo “The Philosophical Disenfranchisement of Art” e, sempre quando dirigevo Tema celeste, ho fatto tradurre molti suoi testi in italiano. Allora era veramente poco conosciuto da noi. Non vedo nessun plagio di Arthur ai danni di Kosuth, Danto è sia critico che filosofo e analizza quel che accade, Kosuth è artista e in quanto tale specula sul suo stesso linguaggio. È come se il primo guardasse fuori e il secondo si guardasse dentro. Probabilmente a Kosuth dispiace che Danto consideri che “la destituzione filosofica dell’arte” abbia inizio con le “Brillo Box” di Warhol e non con la sua “One and Three Chairs”.

Non pensi che il mito, l’hybris del critico che “spiega” l’opera sia superato? Hillis Miller sostiene che la critica sia un genere letterario, come la filosofia. C’è una terza via?
Ma se il critico non va a cogliere fino in fondo le implicazioni dell’opera, che cos’altro deve fare? Spiegare un’opera è tutt’altro che facile, la difficoltà è tutta lì. Non a caso non c’è scuola che insegni a farlo. Se uno vuol occuparsi di filosofia o sociologia o letteratura o politica o insegnare estetica, non si capisce perché debba chiedere al mondo di essere considerato un critico d’arte. C’è anche da chiedersi se sia sufficiente saper scegliere un’opera e ordinare una mostra per essere dei critici. Se è così, allora anche un buon mercante è un critico d’arte, anzi, è qualcosa di più, in quanto le gallerie sono le prime a presentare i nuovi artisti.

Il tuo libro affronta anche l’inaggirabile nodo arte-potere. Ed esprimi giudizi “inclementi” su artiste come Holzer e Kruger…
Dicono di aver un messaggio da diffondere, poi difendono le leggi sul diritto d’autore, per cui tu non sei libero di usare una loro immagine. Il loro messaggio principale non è nelle loro frasi ma nel sostenere che le leggi dei sistemi a capitalismo avanzato vanno rispettate, prime tra tutte quelle sui brevetti e sui diritti d’autore. Negli anni Cinquanta la CIA ha promosso nel mondo l’Espressionismo Astratto in contrapposizione al realismo socialista. Questo perché sapeva che le armi non bastano ad affermare una supremazia politica: la vera supremazia è quella culturale. Se il mondo ti riconosce come un leader sul fronte della cultura, lo sei su tutti gli altri. L’idea dell’artista che con pazienza dipinge i baffi di Stalin esprimeva così una costrizione tanto quanto esprimeva libertà Pollock che, ascoltando jazz, fa sgocciolare colore su una tela stesa al pavimento. Il dripping non è narrativo, ma racconta la liberta di espressione negli USA, nonostante il maccartismo, una pagina tristissima della storia americana (sapevi che anche Greenberg sostenne il senatore McCarthy?). Con Holzer e Kruger succede qualcosa del genere: ti dimostrano che sono libere di criticare il sistema, nei fatti però difendono a spada tratta le leggi che quel sistema lo regolano. Che poi sono le stesse leggi che portano le industrie farmaceutiche occidentali a impedire la produzione a basso costo fuori dal loro brevettodei medicinali per combattere l’AIDS. Quelle leggi, non va dimenticato, hanno portato in Africa a uno dei maggiori stermini di massa nella storia dell’uomo. Formalmente Holzer e Kruger mi piacciono, capisco la loro importanza, ma non mi si dica che sono progressiste, che hanno inventato un linguaggio nuovo e che sono politicamente e socialmente controcorrente. Aspetto con ansia che ci sia realmente qualche artista “scorretto” nei confronti del sistema. All’orizzonte non ne vedo.

intervista a cura di marco enrico giacomelli


Demetrio Paparoni – L’arte contemporanea e il suo metodo
Neri Pozza, Vicenza 2005 – pagg. 255, € 20 – www.neripozza.it


[exibart]

Visualizza commenti

  • ...certo che un libro in cui si parli di "arte contemporanea", che riporta sulla copertina Matthew Barney e che si dichiari contro il plateale e l'accademico, deve risolvere prima qualche contraddizione intenstina...

    auguri di pronta guarigione!

  • E' proprio questo tipo di concezione critica di cui parla Demetrio Paparoni ad essere la causa della confusione che serpeggia oggi nella babelica confusione della comunicazione visiva. Molti critici preposti alla comunicazione sui contenuti delle opere degli artisti, usano spesso un linguaggio incomprensibile, una filosofia accademica, intrisa di retorica o comunque limitata ad una descrizione superficiale, senza nessun riferimento con il contesto storico, sociale e politico o comunque con la storia dei fenomeni artistici. Ciò è dovuto anche all'assenza di canoni estetici e critici definiti e certi ed in definitiva all'assenza di un approccio intellettualmente onesto e comprensibile del contenuto dell'opera. In realtà, questi critici, curatori nominati spesso dal potere politico, economico, più che rendere intellegibile il messaggio artistico sembrano più interessati a difendere posizioni di potere o a enfatizzare disgustose provocazioni fine a se stesse di artisti "radical scic" o di finti oppositori del sistema capitalistico.
    Sappiamo che l'arte da sola, non può cambiare le strutture economiche, sociali e culturali della società, ma può, perlomeno, sensibilizzare le coscienze attraverso la qualità del messaggio e può smorzare in qualche modo il senso di vuoto che talora attanaglia il pubblico. Non bisogna dimenticare che gli artisti delle avanguardie storiche a differenza di quelli di oggi ebbero il coraggio di rischiare sulla propria pelle l'azzeramento totale di linguaggi accademici e convenzioni correnti condivise dalle classi dominanti dell'epoca. Essi, introdussero un elemento rivoluzionario e vitale che non sarebbe più uscito dal dibattito culturale, quello del polo negativo della dialettica che rimane a tutt'oggi un elemento cardine con cui nessuna presunta neoavanguardia può non fare i conti. Lo stesso osannato M. Duchamp ed altri illustri intellettuali-artisti come M. Ernst ebbe a dire, quando nel secondo dopoguerra furono riproposte sotto l'ambigua forma di neoavanguardie e cominciarono a spuntare come funghi, tutte quelle correnti artistiche genericamente definite "arte concettuale", parlarono del primo Dada come una "bomba" che, scoppiando aveva sparpagliato in tutto il mondo dell'arte di innumerevoli schegge che, per quanto irrecuperabili nel tentativo di ricomporre la "bomba" erano tuttavia servite a far rivivere agli artisti una piena libertà intellettuale e istintiva per assurgere ad una capacità di immaginazione che sapeva andare oltre le convenzioni correnti. Ha ragione Demetrio, oggi gli artisti sono accademici e la critica è retorica, ed io aggiungo, sono schegge vaganti in attesa di ricomporsi in una nuova e rivoluzionaria "bomba"

    Savino Marseglia
    (Curatore di Palazzo Datini, Prato)

  • sai qual è il tuo problema savino? Che fai bei discorsi fino a metà e poi, quando dovresti approfondire le ragioni delle legittime osservazioni che fai, scivoli all'indietro a far confronti nostalgici con il passato.

  • ottime premesse su un discorso articolato e complesso, la parola METODO in tutto questo fa centro.Non mi stupisce affatto che non venga capito dai più. Viva la cc-rights license [some rights reserved ].

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