Dov’è la realtà dell’immagine? Cos’è la sua rappresentazione? Georges Didi-Huberman ripone la questione, partendo dal Cristianesimo delle origini per arrivare fino ai bagliori della contemporaneità. Per lo studioso francese, il Cristianesimo ha saputo conferire all’immagine un nuovo valore, lontano sia dall’onnipresenza visiva delle divinità greco-romane che dal divieto di raffigurazione giudaico.
I saggi raccolti nell’
Immagine aperta, scritti tra gli anni ‘80 e i ‘90, ruotano attorno all’opposizione dialettica di “visivo” e “visibile”, mostrando l’origine di una sintomatologia dell’immagine che fa da sfondo all’opera del filosofo francese. Da un lato c’è la semplice rassicurante imitazione del reale, del visibile, dall’altro il suo sconvolgente superamento nel visivo e nelle figure radicali dell’Incarnazione e della Passione. Immagini e “
sintomi”, che si aprono perché rivolti alla rappresentazione della carne, dell’interno, delle viscere e del sangue, del corpo incarnato e sofferente di Cristo sulla Croce.
Ma Didi-Huberman non si ferma all’iconografia della Passione, ma affronta altre figure-limite, che fuoriescono dalle tele per andare a fissarsi sulla realtà dei corpi. Come sulle stigmate di san Francesco d’Assisi, in grado di raffigurare i chiodi della crocifissione attraverso i suoi nervi e il sangue rappreso sulle piaghe. Oppure i terribili riti a cui, in pieno Illuminismo, si sottoponevano le convulsionarie, facendosi letteralmente crocifiggere con veri chiodi impiantati nelle carni.
In una sorta di esegesi del visivo, si mostra il rovescio dell’immagine, la sua apertura in direzione dell’Altro, seguendo
imitatio estreme e impossibili. L’immagine incarnata è immagine fatta di materia e non di forma, non d’imitazione del reale ma del suo superamento, che “
scava nella realtà lo scarto del reale, dell’impossibile e scava nel godimento lo scarto dell’insostenibile, dell’orrore”.
L’orrore e lo scandalo del visivo offono nell’ultimo saggio, dedicato a Bataille, la misura di un vedere che presuppone la violenza proprio per l’intimità, che consente una testimonianza concreta e tangibile, e che trasforma l’occhio in una bocca, la visione in una divorante assimilazione. Laddove lo sguardo si misura con immagini atroci, come la fotografia del supplizio dei cento tagli che ossessionò il filosofo francese, si apre una soglia in cui coesistono estasi e orrore e l’occhio si rivela organo vorace, incapace di distaccarsi dall’immagine, e al tempo stesso organo divorato proprio da ciò che vede. Una prossimità pericolosa tra spettatore e oggetto della visione, che collassa rovinosamente su se stesso nel tentativo di Bataille di aprire l’immagine in uno spazio ateologico. A dimostrare la necessità del riferimento trascendente al Dio cristiano.
Per Didi-Huberman, infatti, la forza con cui le immagini aperte agiscono su di noi e ci sconvolgono è funzionale al
Nome-del-Padre, il nome di colui per il quale patire e compatire, per il quale sanguinare internamente attraverso lo sguardo. E aprirsi davvero all’immagine, rispettandone l’apertura senza cadere nel precipizio bestiale della sua incomprensione.