Questo, signori, è l’anno del Futurismo. Chiassoso,
polemico, dibattuto, fuorviante, inutile, ma pur sempre l’anno che sconvolse il
mondo. E il Futurismo, come ognuno sa, ha avuto in Milano la sua capitale, la
sua mente pulsante e il suo luogo di maggior confronto e scontro.
Tuttavia, il Futurismo non è l’unica avanguardia,
l’unica forma d’arte che ha caratterizzato, informato, influenzato il Novecento
lombardo. Lo mette benissimo in luce il bel volume
Lombardia moderna. Arti e
architettura del Novecento, curato da Valerio Terraroli per Skira, che dedica ampio spazio a
tutte le manifestazioni e le correnti che, sotto la Madonnina come altrove,
hanno contribuito alla formazione di quell’eccellenza culturale che oggi,
faticosamente in tempi di crisi, sta comunque tenendo botta.
Anche e soprattutto in vista del grande
appuntamento dell’Expo 2015, che ha lo scopo di rilanciare l’intera Regione al
ruolo economico e creativo che le compete sul piano internazionale, e
che negli
ultimi anni – complici anche certe scelte a dir poco discutibili, come certe
censure espositive: vedi la mostra
Arte e omosessualità saltata a Palazzo della Ragione
ma recuperata brillantemente a Firenze – sembra invece decisamente sottotono.
Si parte, dunque, con una disamina dello stato
delle arti in Lombardia tra realismo, simbolismo e liberty: cominciando con
l’onnipresente
Pellizza da Volpedo, ecco dipanarsi in tutta la sua forza l’arte intesa ora come
impegno sociale (ancor più importante perché ci troviamo nella locomotiva
d’Italia), ora come volontà di potenza e progresso (
Carrà,
Boccioni,
Metlicovitz), ora come provocazione (
Manzoni,
Fontana).
Ma senza dimenticare il
memento mori: vedi cimiteri monumentali di
Brescia e Milano con le grandi opere dei cantori –
Vincenzo Vela,
Luigi Buzzi,
Enrico Butti,
Francesco Barzaghi – della rampante borghesia
lombarda, che pretendeva per sé oltre al ricordo privato negli affetti la
celebrazione pubblica delle virtù civili del lavoro e della realizzazione
professionale, nuovi valori del futuro.
Ovviamente il curatore, esperto di arti decorative
con un occhio particolare sul Bresciano, ha dedicato a questo aspetto un ampio
saggio. Decisamente suggestiva è la ricostruzione, a opera di Domenico Quaranta,
dell’esplosione artistica che vide Milano, negli anni ‘60, diventare uno dei
centri più importanti della creatività europea. I nomi erano quelli, appunto,
di Fontana, Manzoni,
Baj, e il pensatoio era il breriano Bar Giamaica, vero e proprio “alter
ego” della newyorkese Cedar Tavern.
La flessione inizia con gli anni ‘70 nonostante la
ricerca concettuale di
Agnetti,
Isgrò,
Cavellini, che coinvolge grazie anche a quest’ultimo una città come
Brescia, fino a quel momento decisamente fuori dal giro. E prosegue negli anni ‘80
a causa del “trionfo” della Transavanguardia: qui Milano segna decisamente il passo
nonostante l’attivismo di Flavio Caroli con il Magico Primario che, a detta
dell’autore, “
non raggiunge l’efficacia non diciamo della Transavanguardia,
ma nemmeno dei Nuovi proposti da Barilli, con cui peraltro condivide alcune
figure, come Omar Galliani e il cremasco Aldo Spoldi”.
Il motivo? La città appare molto legata, nel gusto
dei collezionisti, alle esperienze del recente passato e fatica ad accettare
esperienze come quella della Casa degli Artisti, che invece è stata, grazie
alle energie propulsive di
Fabro e
Nagasawa, un momento di creatività imprescindibile.
Importante lo spazio riservato alle esposizioni
internazionali di arti decorative di Monza, ora novella provincia, che ritrova
nelle opere di
Gio Ponti,
Carrà,
Sironi antichi
fasti che hanno tutte le premesse, almeno sulla carta, per ritornare. E
stavolta, forse, senza dover abdicare (come invece avvenne dal 1933) a Milano.
La domanda, per la classe politica neoeletta, è: saranno in grado?
Qui si
parrà loro nobilitate…