In Italia si tirano in mezzo gli avvocati appena qualcuno
scrive nero su bianco cifre e nomi. D’altro canto, se dalle nostre parti già il
giornalismo tout court non gode di buona salute, figuriamoci nel mondo dell’arte, dove
sostanzialmente non è quasi mai esistito.
Detto ciò, i toni di Werner sfiorano effettivamente più e
più volte il limite della diffamazione. E non si può che dirlo con tono
divertito. Perché? Semplicemente perché quel che scrive Werner è la più
cristallina verità, che tutti sanno e nessuno, per l’appunto, scrive. Qualche
esempio: i musei sono “magnaccia del Bello ideale che vivono alle spalle dei
contribuenti e spacciano il primo bavoso con un conto in banca per il salvatore
dell’umanità”; “il
cervello di Krens sembrava fatto di tofu: assorbiva il gusto degli altri senza
averne uno proprio”;
un’onda d’oro. In realtà, anche se nessuno se ne accorgeva, navigavamo nel
piscio”.
Ovviamente non è solo l’ambiente museale a essere oggetto
degli strali satirici di Werner: “‘La Storia è morta!’, sbraitava Francis
Fukuyama, e la Storia gli rispondeva: ‘Fuku yourself’”; e a proposito dei saggi critici
nei cataloghi: “Molti erano scritti in kraussiano, oscura lingua in uso fra
alcune tribù americane imbevute di paccottiglia poststrutturalistica […]. La
funzione del kraussiano non è quella di facilitare lo scambio di informazioni o
la discussione, ma quella di sollevare chi lo parla da ogni responsabilità,
ragion per cui continua a essere tuttora in voga fra i galleristi a un passo
dal fallimento e i docenti in attesa di essere confermati”. E ancora: “Un incarico ai
vertici di un’istituzione non profit ha giocato a lungo, per le famigllie più
potenti di New York, lo stesso ruolo che un tempo giocava un vescovato per le
più potenti famiglie europee. Sfortunatamente i tempi sono troppo difficili
perché gli idioti possano avere successo”.
Va da sé che il libro non si “riduce” a ciò. Anzi, è
un’acuta riflessione sul ruolo del museo, da un lato per com’era negli anni ’90
e per com’è spesso ancora allo stato attuale, negli States e non solo (i
“modelli” esaminati sono quello di Krens-Guggenheim e di de
Montebello-Metropolitan), e dall’altro per come dovrebbe essere, almeno nella visione
dell’autore. Che prende spunto in particolare dalle analisi di Pierre Bourdieu,
ma superandole e proseguendole su diverse questioni. Una su tutte, quella del
metaracconto: il tentativo di superare quest’impostazione, questa politica
allestitiva in uno spazio come quello del Guggenheim di Wright ha condotto a esiti discutibili
(per esempio nel caso della mostra Cremaster di Matthew Barney: “un grottesco e leggiadro
scivolone”), per
non dire del caos tutt’altro che stimolante degli spazi di Gehry a Bilbao.
Che fare allora? Non certo seguire la fallimentare scia
del Guggenheim, bensì concentrarsi sul pubblico, composto non da consumatori ma
da lavoratori. In altre parole, agire dall’interno per modificare l’impianto
dell’istituzione-museo, epifenomeno del rapporto fra istituzioni e classi
sociali nell’era della globalizzazione. Un compito non da poco…
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giacomelli
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 63. Te l’eri perso? Abbonati!
Paul
Werner – Museo S.p.A.
Johan & Levi, Milano 2009
Pagg.
80, 12
ISBN 9788860100577
Info: la scheda
dell’editore
[exibart]
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