Barbara Rose è una delle più importanti storiche e critiche dell’arte contemporanea. E stando alle battute iniziali del suo
Paradiso americano, verrebbe da aggiungere anche “una delle ultime”. Infatti, nella recente intervista e nel testo del 1987 che aprono la raccolta di oltre quarant’anni di attività – ma con una significativa ellissi tra l’inizio degli anni ‘80 e la fine dei ‘90 – Rose riconosce che ormai la disciplina è stata relegata ai margini del sistema e la sua voce si è fatta sempre più sola, flebile e inascoltata.
Contro i tamburi da guerra di “
pubblicità e marketing la critica non può difendersi ” e viene di fatto esautorata del suo ruolo. Per il pubblico i critici attendibili sono i paladini del gusto e delle mode, gli opinion maker in grado di muovere al rialzo i valori economici dell’arte. Coloro che non si pongono la fatica del concetto e del fondamento del suo giudizio, chiarendo gli aspetti qualitativi dell’arte sulle basi della storia e del confronto con i documenti e non cercando di offuscarli in favore di quelli quantitativi del suo mercato.
All’origine di questo atteggiamento sta la “
critica come propaganda”,
a cui si rivolge uno dei saggi della raccolta, individuata nella figura e nell’opera di Clement Greenberg, autore di ripetizioni, omissioni e semplificazioni che costruiscono una vera e propria macchina mediatica a sostegno delle proprie tesi, degna erede dei manuali di propaganda degli anni ‘30.
Ai saggi che delinano il triste declino della critica d’arte fanno da contraltare i testi raccolti nelle parti dedicate alle origini dell’arte contemporanea americana e su pittura e scultura fra anni ‘60 agli anni ‘80, tra cui spiccano per importanza e respiro
ABC Art, articolo destinato a diventare un manifesto del Minimalismo, e le monografie su
Jackson Pollock,
Jasper Johns,
Robert Rauschenberg e
Richard Serra.
È qui che viene a delinearsi la
pars construens della raccolta, in grado di esemplificare la pienezza e la profondità della parola sull’arte, la cui importanza viene ribadita dall’assenza d’immagini a corredo di oltre 600 pagine di testo, la cui unica pecca sta purtroppo nell’eccessiva messe di refusi.
Con un atteggiamento impostato su un pragmatismo metodologico, Rose interpreta il significato di un’opera in base al suo ruolo nel mondo, interrogandosi innanzitutto sulla sua funzione, sul suo voler istruire, sbeffeggiare, stupire o scioccare il pubblico. Emerge tra le righe il profilo del critico d’arte: concreto, onesto e impegnato, che rifiuta di promuovere l’irrilevante e, secondo l’insegnamento di Baudelaire, “
ha il dovere di essere appassionato e parziale”.
Per questo, sulla scorta della sue lucide analisi, la bella penna della critica americana può prendersi il lusso – e il rischio – di farsi tagliente anche nei riguardi di autori o eventi universalmente celebrati, scagliandosi ad esempio contro
Bill Viola o l’osannatissima
Documenta del 1972 a cura di Harald Szeemann.