Dentro e fuori da un mondo artificiale. È quella realtà parallela, divenuta fonte d’intrattenimento culturale che, come in una grande scuola, comprende classi di artisti, talvolta improvvisati, diligenti opinionisti e una fitta retroguardia interessata a cogliere gli aspetti più notevoli del “mondo dell’arte”. È una dimensione in cui si trova Lea Vergine, divisa ma non combattuta fra la partecipazione attiva alla produzione critica e il sostanziale distacco dalla desertificazione culturale in cui, a suo giudizio, versa l’Italia.
Critico e scrittrice, Vergine raccoglie tracce di se stessa e della storia dell’arte contemporanea dal 1965 al 2007 in una ridda di Parole sull’arte. Le cinque macrosezioni raccolgono da un lato un’ottantina di scritti per il “Corriere della Sera” e “Il Manifesto”, “Vanity Fair”, “L’Europeo” e “Linus”, dall’altro i testi dei cataloghi di mostre, dov’è protagonista il versante curatoriale di Lea Vergine, che presenta la ricerca di artiste come
Gina Pane e
Carol Rama.
Senza seguire un andamento cronologico, l’autrice parte dai ricordi. Il primo è una commemorazione della galleria napoletana Il centro, dove l’allora giovane curatrice riuscì a portare Umberto Eco e Giulio Carlo Argan nei primi anni ’60 e dove esposero
Fontana e “
i due gettoni di scambio nativi”
Renato Barisani e
Gianni Pisani. Al titolo poetico di
Acre la gioia dell’ombra, saggio per la mostra tenutasi a Napoli nel 1991, è affidata la sequenza emozionata del debutto sulla scena (siamo nel 1957) su “L’idea”, un “
fogliettino locale”, un luogo come un altro per esprimere le proprie opinioni, in questo caso su
Emilio Notte.
Così lontano così vicino sono quindi sparsi flashback di momenti pubblici, arricchiti da sentimenti privati di una Napoli dove “
c’era un vuoto sordo e implacabile, nessuna attenzione (figuriamoci rispetto!) per quelli che di arte tentavano di vivere facendola o scrivendone”. Il sapore rimane complessivamente amaro, come di chi si sforzi con una bandiera d’indifferenza di distaccarsi da un luogo “
dove tutto era lasciato all’iniziativa di ciascuno e il ciascuno era sempre e solo rimandato a se stesso”. È ora di partire, destinazione Milano.
Nella grande cruna dove s’intrecciano i fili di arte, moda, industria e tecnologia, la velocità della prosa e l’andamento descrittivo dei suoi testi si fa analisi attenta di quanto all’epoca era nuovo, che fosse
Irritarte – mostra del ’69 dove artisti come
Tetsumi Kudo e
Paul Thek rappresentavano l’uomo senza orpelli interpretativi ma per l’essere debole e mortale che è – o che si trattasse della lacerante Body Art, da cui fuoriuscì la teorizzazione nel
Corpo come linguaggio nel 1974.
Nel confronto tra lo ieri raccontato e l’oggi vissuto dal lettore, suonano fortemente critiche le parole di Lea Vergine perché, considerando la vitale costellazione di mostre, dibattiti, convegni e fiere a Milano, ne
Gli anni Settanta alla fiera campionaria del 2007 è palese il disgusto per una élite che governa il carrozzone “
incafonito” dell’arte, che trionfa in “
un clima disneyland” tra “
incompetenza e pacchianeria”, perdendo il significato stesso delle parole. Esemplare l’uso di “evento”, spodestato dal concetto originale per far posto all’idea di un happening con molto glamour e poco contenuto.
Nei frammezzi concessi tra Arte Povera e Programmata, c’è la narrativa da viaggio più rilassata di
Orcadi, isole dell’utopia. Ma è solo un sospiro di sollievo nel nugolo combattivo che muove Lea Vergine tra passione e interesse.