I
fil rouge che connettono questi saggi sono numerosi e im-portanti. Una
raccolta interdisciplinare, poiché Valeriani attraversa con agilità i territori
della storia dell’arte, della moda, dell’estetica, della sociologia, della
politica.
Della politica, lo ripetiamo, poiché è assai raro che i
lettori di questo genere di saggistica s’imbattano in un nome come quello di
Tronti o, ancor meno, in quello di
Laboratorio Politico, rivista di cui l’autrice è stata
redattrice e che ha costituito, insieme a una manciata di altre pubblicazioni,
il luogo più vivo e vivace della riflessione d’una sinistra non impastoiata
nelle maglie della mera spartizione dei poteri.
A titolo di esempio, effettuiamo l’operazione inversa,
disarticolando l’organicità del libro. E prendiamo le pagine di
Vestire
l’immaginario.
Che si apre con una mostra statunitense di
Marcel Duchamp (uno dei fili rossi che
costituiscono la trama della riflessione di Valeriani, in particolare
quell’“opera postuma” che è
Étant donnés…) durante la quale l’artista gioca a scacchi con una modella nuda o,
meglio, “con la Bellezza messa a nudo”. Lei è Eve Babitz, autrice fra l’altro di un libro sulla “scena” Fiorucci: “Fiorucci, sembra dire Babitz
assumendo il ‘camp’ di Duchamp e di Warhol, è ‘la virgolettatura’ del mondo pop”.E siamo già al cuore della questione,
del nodo arte/moda. Nodo nel quale non solo l’arte perde quella connotazione
“moderna” attraverso la cui lente spesso ancora la si osserva; anche la moda,
il suo significato e il suo mondo, subisce una torsione significativa. In una
parola, si tratta d’intendere “
l’abito come ‘habitus’: dunque miti che si condividono,
musiche che si ascoltano, riti che si celebrano, passioni che si nutrono”.
Ma perché
Fiorucci e il suo immaginario
sono così importanti? Perché, risponde Valeriani, hanno colmato un vuoto,
quello creatosi dall’assenza in Italia della cultura pop, che nelle arti
figurative – checché ne dica qualche critico piuttosto superficiale – non ha
mai visto una luce reale. Perché è sì vero, come prosegue l’autrice, che il nostro
paese ha recepito in pieno il fenomeno anglo-americano, come dimostra il
celeberrimo premio assegnato durante la Biennale di Venezia del 1964. Ma quello
stesso riconoscimento testimonia del fatto paradossale che il pop in
Italia era una questione d’avanguardia, “
che faticava a coincidere con un
tessuto sociale, proprio perché questo tessuto sociale non era
metropolitanizzato”.
Ed è qui che interviene Fiorucci,
offrendo gli strumenti per operare la
saldatura fra cultura e consumi. E lo riesce a fare perché “
sa cogliere la capacità
autorappresentativa, e quindi performativa, dei nuovi soggetti”. In questo
senso, non è affatto d’avanguardia ma pienamente pop; in altre parole, “‘
non produce avanguardia, ma
produce l’industria culturale’ che consente semmai ai consumatori di produrre
avanguardia”. Torniamo allora alla pressione esercitata sull’oggetto
di/della moda, col passaggio dall’“
abito-statua all’habitus come performance”.
È in quest’accezione che va inteso il
titolo del libro: i performer sono quei consumatori attivi, quei
prosumer che agiscono e
non subiscono la moda, l’arte o qualsiasi altro ambito. Calvesi l’avrebbe
chiamata “
avanguardia
di massa”; Valeriani preferisce l’espressione “
consumo multitudinario”. Ma il
concetto resta pressappoco il medesimo. E non si tratta di un’utopia.