Sir Simon Reynolds è il baronetto del giornalismo musicale della Gran Bretagna. Non a caso, non immeritatamente. Perché scrive meglio di come mangia, e ha una cultura musicale –ed estetica– che i nostri scribacchini da salotto si sognano. Sarà perché in Inghilterra il giornalismo è ancora un mestiere; sarà perché lì la musica pop è un pilastro dell’industria nazionale e non un giochino da debosciati.
Fatto sta che è un piacere scoprire che in Italia la Isbn di Massimo Coppola e soci ha pubblicato Rip It Up, un librazzo che racconta un’epoca musicale e non solo: il dopo ’77, il post-punk, genere indefinito che ebbe il suo fulgore nel periodo tra il 1978 e il 1984. Il collaboratore di “Melody Maker”, “New York Times”, “Village Voice”, “Spin”, “The Guardian”, “Rolling Stone” racconta vita, morte e miracoli dei protagonisti di quella scena artistica: dopo il no future dei Sex Pistols esisteva ancora la possibilità di credere nel valore dell’arte in quanto arte. La musica non poteva cambiare il mondo? Poteva però cambiare le persone, e al contempo influenzare i linguaggi. Ecco l’onda nuova, la new-wave.
In 700 pagine si narrano gli accaduti di band come Cure, Joy Division, Depeche Mode, Bauhaus, New Order; ma si dice anche del pedofilo-sfruttatore anticipatore di mode e modi Malcom Mc Claren; del futuro che ebbe Johnny Rotten. Più in generale, delle volontà -o nolontà- di un manipolo di personaggi di superare-migliorare-rinnegare il punk. Mischiando il rock con l’elettronica, il pop con il reggae e la dance, le performance a base di penetrazioni ano-vaginali e clisteri al disimpegno, la rivolta politica al non-senso, il cinismo nazistoide al rumore. Pe
Ma succede un po’ come con la politica: che a vedere i brutti musi che girano, quasi si rimpiange il passato. Anche quello non vissuto. Nell’era del post-post-moderno si torna indietro: lente d’ingrandimento sugli ultimi alfieri del “lo faccio perché ci credo”. Videoclip e foto imbarazzanti rigurgitate da rotocalchi d’epoca, ma anche passione pura e idee a non finire. Si scopre, una volta di più, che Manson non ha inventato niente e che Mtv –incredibile a dirsi–si faceva condizionare da chi aveva idee, prima di condizionare chi di idee non ne ha. I riverberi del post punk durano ancora oggi: non sono forse gli U2, Bjork e altri ultraquarantenni brillanti a tenere in piedi il malmesso baraccone del pop-rock?
Reynold scrive con competenza, eleganza e facilità. Dimostra una consapevolezza moderna: raccontare una storia è occuparsi delle sue etiche-estetiche, con un libro di Hegel sottobraccio e un vecchio lp dei Public Image Ltd che gira sul “mangiadischi”. Consigliato nonostante il costo.
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E' un libro straordinario. Si legge come un romanzo, ma ci dice di più sulla situazione musicale, sociale e culturale di quel periodo di tanti documentari o testi di pseudo-opinionisti. Piacerà molto ai patiti della new-wave, ma non trascura assolutamente i versanti più nascosti e più avanguardisti dell'universo musicale anglosassone di quegli anni.
bella recensione, bel libro. complimenti all'articolista e alla isbn