Tutti i primitivismi nascono dal rifiuto da parte dell’artista del mondo che lo circonda. “Il mito primitivistico che ha alimentato tanta cultura figurativa negli ultimi due secoli è strutturalmente connesso al disagio […] dell’artista moderno a convivere con una società che minaccia di emarginarlo”. È questa la tesi proposta da Antonio Pinelli nei ventuno saggi raccolti nel libro. Si tratta della riedizione (con minime variazioni) di saggi già pubblicati in un più ampio scritto –Nel segno di Giano. Passato e futuro nell’arte europea tra Sette e Ottocento– che è stato suddiviso in due testi: quello qui presentato e Il Neoclassicismo nell’arte del Settecento.
L’autore passa in rassegna vari gruppi di artisti che tra Sette e Ottocento improntarono la loro poetica a una “consapevole regressione primitivistica”. Per primitivismo Pinelli non intende unicamente il ritorno all’antico o meglio all’arcaico; esistono tante forme di primitivismo che hanno in comune l’obiettivo di restituire all’arte la spontaneità perduta, ma scelgono modelli di riferimento diversi ai quali attingere per recuperare una sincera ispirazione.
Regredire per rigenerare l’arte significa per i Barbus guardare come modello all’antica Grecia; i Nazareni tedeschi si ispirano al Medioevo, visto come un’epoca intrisa di una religiosità intensa e modellano anche la propria vita su quella semplice e austera dei monaci medioevali; i Preraffaelliti inglesi riscoprono del Medioevo il carattere “leggiadramente cortese e operosamente artigianale”. Tra i primitivisti Pinelli inserisce anche Caspar David Friederich e Philipp Otto Runge. Il primo cerca ispirazione nel primitivo che è in noi, “l’artista è colui che dopo essersi tuffato nella propria interiorità è capace di riportarne alla luce i tesori segreti e di manifestarli all’esterno”. Runge propone di regredire
Qualunque sia la scelta primitivista, è dettata dalla volontà di restituire vitalità all’arte, minacciata dalla “civilizzazione” -che con il trionfo della scienza e della razionalità inaridisce l’immaginazione- e dallo sviluppo incontenibile della rivoluzione industriale. L’artista deve guardare al passato per salvare l’arte e garantirle un futuro.
Il quadro storico ricostruito da Pinelli è davvero completo e include saggi sulla scuola dell’Hudson River (i primitivisti d’America), sui rapporti tra arte e rivoluzione industriale, perfino su Ingres le cui prime opere hanno, secondo Pinelli un carattere di arcaico purismo se poste a confronto con quelle del neoclassico Jacques-Louis David. All’architetto Etienne-Louis Boullée è dedicato uno dei capitoli più interessanti: progettava edifici rivoluzionari semplificando al massimo le forme e scriveva –ha lasciato un Essai sur l’art– già come uno spirito romantico.
Un argomento, i primitivismi, non molto frequentato dagli storici dell’arte, anche perché le opere prodotte da queste confraternite di artisti non sono sempre di elevata qualità. Ma affrontarono temi importanti e lasciarono in eredità ai decenni successivi (dall’impressionismo alle principali avanguardie del Novecento) un messaggio di grande valore: la necessità di rifondare l’arte e di cercare per l’artista un nuovo ruolo nella società, quello di forzare “la soglia del visibile per spingersi oltre negli astratti domini dell’invisibile. Quell’invisibile che solo l’artista […] è in grado di percepire e visualizzare”.
Ampia e molto utile la bibliografia ragionata a cura di Katiuscia Quinci e Chiara Savettieri.
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