Categorie: Libri ed editoria

libri_saggi | Sound Art | (rizzoli 2007)

di - 14 Luglio 2008
Si legge con una piacevolezza che è difficile riscontrare nelle pubblicazioni accademiche il nuovo saggio sulla sound art di Alan Licht, pubblicato negli Stati Uniti e disponibile esclusivamente in lingua inglese. Merito senza dubbio del pragmatismo anglosassone che evita gli eccessi teorici professorali, di una scrittura che sa alternare momenti di analisi e citazioni senza pesare sul lettore, di un apparato di illustrazioni di grande pregio.
L’autore – che collabora con “Wire” ed è curatore del centro di musica sperimentale Tonic di New York – traccia una storia di questa categoria espressiva evidenziando sin da subito la criticità della definizione di sound art, di cui non esiste una enunciazione condivisa né da parte degli artisti né dalla comunità dei critici. La difficoltà è aggirata proponendo tre categorie di riferimento, e quindi tre differenti macrotendenze a cui i lavori possono essere ricondotti. La prima è quella di installazione sonora ambientale delimitata dallo spazio o nel tempo che può essere fruita come fosse un manufatto di arte visiva; la seconda è quella di un’opera visiva ma che contiene al proprio interno dei dispositivi in grado di produrre suono; l’ultima è quella di suono cui gli artisti visivi ricorrono come estensione di ciò che hanno prodotto con altri media.

Superato lo scoglio della classificazione, pur senza tacere limiti e difficoltà della tassonomia, Licht sceglie un approccio trasversale e passa ad analizzare pensieri e parole di musicisti, artisti, cineasti, mettendo insieme un mosaico di particolare pregio: così i lavori di autori di musica classica come Gustav Mahler, Erik Satie, Charles Ives sono accostati ai grandi sperimentatori come John Cage, a registi cinematografici (a partire dalle avanguardie russe fino alla Nouvelle Vague), ma anche ad autori come Vito Acconci e Chip Lord. Diventa infatti centrale scardinare i meccanismi spaziali di produzione sonora (si pensi ad esempio al lavoro di Karlheinz Stockhausen scritto per tre orchestre, disposte nella stessa stanza ma fisicamente distanti), ma anche dissociare visione delle immagini e sonoro del film, mettere cioè in atto qualsiasi procedimento che permetta un uso creativo delle facoltà uditive.
La realizzazione di ambienti sonori sul finire degli anni ‘60 – siano essi manufatti umani o particolari contesti ambientali naturali disponibili all’aperto – segna invece per Licht la linea di evoluzione tra una generazione di artisti sperimentali, con interessi più performativi, e figure il cui lavoro è caratterizzato da un approccio che potremmo impropriamente dire architettonico (si pensi a Max Neuhaus o Rolf Julius), mentre gli autori più importanti nati nel dopoguerra sembrano sentire con più forza la componente visiva, sia in maniera estensiva come Mike Kelley, che in senso fortemente scultoreo come Steve Roden o Stephen Vitiello.
Steve Roden - Study for The Moon Gatherers - 2002 - courtesy e/static, Torino & l'artista
Arricchito da molte idee e spunti laterali (molti dei quali avrebbero forse meritato un maggiore approfondimento), il volume è corredato da una snella bibliografia, dalla biografia dei principali autori e da un cd con alcune pregevoli tracce dell’ultimo decennio.

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daniele capra

la rubrica libri è diretta da marco enrico giacomelli

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 50. Te l’eri perso? Abbonati!


Alan Licht – Sound Art. Beyond music, between categories
Rizzoli, New York 2007
Pagg. 304 + CD, ill. col., testi ing., € 50
ISBN 978047829699
Info: www.rizzoliusa.com

[exibart]

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