Giulia
Jurinich, l’autrice di questa agile monografia pubblicata dall’editore veneto
Damocle – e primo volume della collana
I saggi, diretta da Pierpaolo Pregnolato -, è una giovane
studentessa di Venezia. Le pagine che ha dedicato a
Takashi Murakami (Tokyo, 1962) sono il frutto di una rielaborazione
della sua tesi di laurea conseguita alla Sapienza di Roma.
Un
libro, dunque, che ha tutti i pregi e i difetti d’una tesi. Iniziamo dai
secondi: innanzitutto una cura piuttosto superficiale dell’editing – ma questo
è un aspetto che va imputato all’editore più che all’autrice -, il che si
traduce in una gamma d’interventi mancati, che vanno dai refusi alla presenza
di alcune ingenuità contenutistiche. Ma ciò che maggiormente delude in questo
saggio – che, sia detto a chiare lettere, è assai interessante – è l’essere
paradossalmente
datato.
Jurinich si è infatti laureata nel 2008 e il libro è uscito alla fine dell’anno
scorso. Certo, parlando di un autore vivente e tutt’altro che inattivo, sarebbe
stato impossibile seguirne gi sviluppi sino alla stampa. Ma è altrettanto certo
che si sarebbe potuto almeno “relativizzare” l’enfasi sulla pur importante retrospettiva
partita dal Moca di Los Angeles ormai tre anni fa, nonché cambiare banalmente alcuni
tempi verbali (un esempio per tutti, la collaborazione con Kanye West, che è
diventata realtà e si è esplicitata nella realizzazione di due copertine, di un
video e di una serie di
bear sculpture; o, ancora, la prosecuzione della collaborazione con Vuitton).
Detto
ciò, i pregi sono altrettanti; anzi, eccedono i difetti. In primo luogo è
proprio l’inevitabile
naïveté dell’autrice
a permettere di seguire uno sguardo “fresco” sull’artista nipponico. E se non
emergono interpretazioni particolarmente innovative o inedite (anche se alcuni
sprazzi vi sono, e avrebbero meritato di essere approfonditi, come l’accenno a
Bataille), il libro ha il merito di rammentare una serie di luoghi
comuni che, proprio per il loro essere
lampanti, spesso hanno un impatto retinico minimo, quasi inconscio. Parliamo del
ruolo di un artista giapponese che è cresciuto ascoltando racconti sulla
disfatta del proprio paese durante la Seconda guerra mondiale, una disfatta
terribile e distruttiva; di un artista che ha scalato le vette di un sistema
dell’arte che ha ancora il suo centro, o almeno uno dei suoi centri, proprio a
New York. Si tratta, ancora, di un artista che ha portato alla ribalta mondiale
gli esiti dell’innesto delle tradizioni giapponesi su un impianto economico e
ideologico occidentale. Anche solo per questa contestualizzazione storica e
sociale andrebbe letto il libro di Giulia Jurinich.
I
suoi meriti non finiscono però qui. Almeno va aggiunto il piglio quasi pignolo
con il quale l’autrice spiega, commenta, chiarisce termini e “usi” che sono
oramai entrati nel linguaggio comune occidentale, spesso però agganciati a
definizioni ellittiche, assiomatiche, “fredde”. Per dirne una: quanti sapevano
che la parola ‘manga’ è stata coniata da
Hokusai? E chi conosce l’etimologia per certi versi
sorprendente di ‘otaku’, utilissima per comprendere più a fondo la crasi di ‘pop’
e dello stesso ‘otaku’ in quel ‘
poku’ che riassume l’attività di Murakami?