Che cos’è la
mediologia? È una disciplina mentale
piuttosto che una scienza; è la tecnologia dell’informazione
mediata e la sociologia dei suoi effetti.
Régis Debray, mediologo, scrive la biografia
dell’immagine, con piglio aforistico, baroccheggiante, anti-lineare. Nata come
difesa dalla morte, dalla sparizione (privilegio sociale della memoria, essa può
sopravvivere, la parola no, essendo evanescente e mortale, a meno che non
assuma, per l’appunto, forma grafica), l’immagine è assunta dal Cristianesimo per
il suo potere strategico, di cui questo, unico fra i monoteismi ad aver abolito
l’interdizione iconofoba, comincia presto a servirsi consapevolmente.
Chiunque voglia separare la nostra età della percezione
dalle precedenti deve fare i conti con Walter Benjamin. Debray lo sa e vi si
scontra a viso aperto, arrivando a retrodatare la secolarizzazione delle
immagini al Rinascimento: non alla riproducibilità meccanica si deve la conclamata
perdita dell’aura, bensì alle rivendicazioni degli artisti quattro e
cinquecenteschi. Con esse comincia a decadere l’autorità sacrale, superumana e
immediata della forma in sé (il trascendente si privatizza); viene meno l’incarnazione
che preserva dalla morte, la mediazione tra umano e divino.
Una urgenza classificatoria, ma prudente e autoironica,
guida Debray verso l’individuazione di tre età dello sguardo: magico (nella logosfera,
mondo degli idoli e della scrittura manuale),
estetico (nella grafosfera, età
dell’arte e della stampa) ed economico (nella nostra videosfera, il luogo dell’audiovisivo
ubiquo, della televisione e delle sue antinomie conviventi). Tre mediosfere illustrate
da un diagramma che incasella 57 categorie, aspetti potenziali delle tre epoche
(o zone mentali). Basti da esempio la tripletta di aggettivi che usa per
definire la traiettoria dell’immagine: da veggente a vista, da vista a visionata.
“
Non idolatriamo più le opere ma gli artisti”, la cui esistenza è
drammatizzata, verbalizzata in una dis-misura di parole resasi necessaria per
sopperire al vuoto simbolico, alla mancanza di senso. Il mutismo dell’immagine
(esposta, museificata, disinnescata) è tanto “sconveniente” da doversi riempire
col moltiplicarsi dei discorsi della e sulla comunicazione: “
The less you
have to see, the more you have to say”, ammicca Debray.
Una remora alla cognizione di questo processo è la
sopravvivenza dell’estetica kantiana, che il nostro tratta come un luogo comune
da snebbiare, così come l’equivoco dell’arte greca (funzione, non arte. Utilità,
non bellezza), la rappresentabilità della natura e del paesaggio come
spettacolo pittoresco.
In chiusura, tra le pagine aleggia il fantasma
mitologizzato del postmoderno, riecheggiano le parole (poetiche oltre che
profetiche) di MacLuhan e quelle di Baudrillard: il reale scompare, sopraffatto
da una rappresentazione simulacrale; ogni cosa finisce declassata al rango di
semplice segno, che trova unicamente in sé il proprio referente, non
indicando più alcunché.
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Vogliamo ringraziare Carlo Titomanlio e la redazione di Exibart per questa bella e approfondita recensione. Vi invitiamo tutti a seguire la pagina facebook del Castoro: http://www.facebook.com/#!/pages/Il-Castoro-Cinema/121716791192631?ref=ts per tutte le informazioni sulle nostre pubblicazioni.