La questione della reciproca invidia fra artisti e
architetti è un tema assai dibattuto negli ultimi anni, ma le cui radici
affondano nei secoli scorsi. Nulla di nuovo sotto il sole? Non proprio, poiché
in quest’epoca certi dibattiti sono esacerbati dalla peculiarità “dromica” che
contraddistingue la nostra società. E quando le voci corrono in ogni parte del
globo, è più probabile che il battito d’ali d’una farfalla scateni un uragano.
Lo sa bene
Michael Herrman, il cui
libro è eloquentemente sottotitolato
The Architecture of Displacement and
Placelessness, frutto del lavoro d’uno studioso americano di stanza
a Parigi e borsista all’American Academy di Roma.
Questo gioco di ruoli ha la sua origine moderna in quella
scuola per costruir case chiamata Staatliches Bauhaus. A Weimar la strana
coppia costituita da
Walter Gropius (di cui è appena stato distribuito in libreria
Apollo
nella democrazia per i tipi di
Zandonai) e
Lázló Moholy-Nagy progetta la collana dei Bauhausbücher e nel 1925, anno del
trasferimento a Dessau, esce l’ottavo dei quattordici volumi della serie:
Malerei,
Fotografie, Film. Ed è da qui che è partito il coraggioso progetto
di ristampa proposto dal Dipartimento di Storia delle arti, della musica e
dello spettacolo della Statale di Milano e dal Kunsthistorisches Institut di
Firenze. La formula è quella del “libro a fronte”, un cofanetto che comprende
il reprint anastatico e la traduzione italiana accompagnata da saggi critici.
Un ottimo modo per festeggiare il 90esimo compleanno del Bauhaus.
L’importanza della fotografia per l’architettura, e
viceversa, è analizzata da Giovanni Fanelli nella sua recente
Storia della
fotografia di architettura. Se la prima
“fotografia”, realizzata da
Niépce nel 1826, aveva come soggetto
proprio “
uno spazio architettonico”,
ovvero il cortile della casa di famiglia del protofotografo – e senza nulla
togliere alla funzione documentaria della fotografia stessa – come non
riconoscere un duchampiano “
coefficiente d’arte” agli scatti di
Carlo Mollino o alle
indagini dei coniugi
Becher?
Un capitolo rilevante del rapporto arte-architettura
concerne gli edifici destinati, almeno in linea di principio, a ospitare l’arte
e i suoi derivati: i musei. Ogni
archistar degna di questo nome ne ha realizzati almeno un paio. E se talora la
funzionalità (progettare un contenitore per opere d’arte) è stata messa in
secondo piano rispetto al desiderio di dar vita a un’opera “autonoma”
(l’esempio
princeps è il
Guggenheim di Bilbao disegnato da
Gehry), vi sono almeno due
recenti casi italiani di sapiente dosaggio d’intenti, finalità e obiettivi: il
Museion di Bolzano e i suoi due ponti sul Talvera (opera del trio berlinese
KSV raccontata da uno specchiante libro edito da Jovis)
e la pinaultiana Punta della Dogana a Venezia (dove s’è espresso a livelli
altissimi
Tadao Ando, come
dimostra il libro di Francesco Dal Co, che analizza la sinergia fra
l’architetto giapponese e il milionario francese).
Stranieri in Italia ma pure italiani all’estero: il nostro
Italo
Rota ha esordito occupandosi nientemeno
che del Musée d’Orsay e del Pompidou. E mentre lavora, fra l’altro, al Museo
del Novecento di Milano, ha pubblicato un libro spumeggiante, dedicato ancora
una volta all’arte: niente progetti di musei, piuttosto un colto saggio critico
seguito da alcuni progetti non d’allestimento ma d’installazione. Uno per
tutti,
The Entertainers. Il potere degli accessori, realizzato
nel 2001 per Pitti Immagine, con Carla Sozzani in veste di curatrice.
Non ci si stupirà dunque se il visiting professor del Corso
Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti, nell’anno 2008, era
Yona
Friedman, ideatore di un
Museé dans la
rue che lambiva il comasco Asilo Sant’Elia di
Terragni. E quanto sia “artistica”, nella migliore accezione
del termine, la sua architettura lo dimostra
L’architecture de survie,
saggio del 2003 che, grazie a Bollati Boringhieri, ora è disponibile anche in
italiano.
Nell’auspicato caso in cui questi flâneuristici spunti non
esauriscano la curiosità, ci si può abbeverare alla fonte, ossia alle
Parole
dell’architettura antologizzate da Marco
Biraghi e Giovanni Damiani, nonché alla
Talking Architecture messa su pagina da Hanno Rauterberg. Così da
spaziare fra
Superstudio e
Rem Koolhaas,
Norman Foster e
Daniel Libeskind.
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Non sono convinto che il Museion, che pure è un bell'oggetto architettonico, sia perfettamente adeguato alle istanze dell'arte. In maniera particolare per la troppa ampiezza volumetrica delle stanze dei piani principali, in cui allestire mostre è molto complesso...