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Massimo Minini e il suo volume ‘Scritti’, storia di una straordinaria avventura
Libri ed editoria
Il coraggio delle scelte. E la passione per le avventure intellettuali. Travolto da questi talenti Massimo Minini ha marchiato l’arte contemporanea in modo indelebile. E ha deciso di raccontare come ha fatto e cosa ha vissuto in un nuovo libro, Scritti, che è una passeggiata piena di sorprese, illuminazioni e saggezze abbozzate esplorando questi territori con curiosità e cultura a raggio larghissimo. «Le cose vengono come devono venire. È inutile contrastarle. Io mi arrendo. E mi sono sempre arreso. Dopo gli studi di legge mi sono arreso all’arte e sono diventato un gallerista. E allo stesso modo ho iniziato a scrivere. Però questo è “Il libro dei libri”, perché racchiude parti di tutti gli altri precedenti (da Luce (Phos) a Kiefer and Feldman. Eroi e antieroi nell’arte tedesca a Pizzini-Sentences). Ma anche scritti con tutto quello che ho pensato in questi anni: articoli, interventi, discorsi, lettere… Non è noioso, è vero. Ma è spaventoso. È un vero peccato di superbia», ironizza Minini. Si deve iniziare a leggere senza assolutamente dimenticare l’indice: i titoli dei capitoli e i sottotitoli inquadrano una biografia baldanzosa con un ritmo vivacissimo determinato anche dalle diverse forme di narrazione, tra cui le lettere e le liste, una delle passioni anche di Umberto Eco («provo anche io la vertigine delle liste», aggiunge Minini). Ma è anche un manuale sui generis di arte contemporanea. Ed è un oggetto d’arte. Sì: la copertina con una speciale sovracopertina è di Daniel Buren, uno di suoi maestri (spiega nel capitolo ad hoc) e uno degli artisti diventati storici in galleria.
Si decolla per il viaggio con l’”Autointervista. Dove l’autore finge domande cattive per darsi modo di rispondere”, che apre il dialogo con il lettore dichiarando chi è Massimo Minini (che risponde anche alle solite domande dei detrattori). Un incipit che ricorda quello di Calvino, di Se una notte d’inverno un viaggiatore… si dichiara come una sorta di libro aperto… E poi prosegue rimbalzando da un argomento all’altro, garantendo un’entrata in un caleidoscopico, che rifrange in mille modi quel meraviglioso e maledetto universo dell’arte contemporanea. Di pagina in pagina tutto scorre con una essenziale levità nello stile che può essere intesa come un distacco e potrebbe far pensare che al gallerista bresciano tutto sia accaduto per caso. E invece non è mai stato così. E ce lo dice la descrizione degli inizi della Galleria a Brescia, gli incontri fondamentali cercati con i maestri e degli amici («pochi», cit.) galleristi, nelle fulminee e puntuali descrizioni dei Pizzini. Zampillano quindi davanti a noi Lucio Amelio (il gallerista napoletano) e il suo piglio, la singolarità geniale di Seth Siegelaub, curatore e studioso, l’imperiosità e il genio di Daniel Buren, la stravaganza di Vittorio Sgarbi. E così via via si materializzano davanti a noi anche altri personaggi chiave che hanno “creato” l’arte contemporanea: dai curatori come Harald Szeemann e Germano Celant, a Giulio Paolini, uno degli artisti chiave dell’Arte Povera, cui è dedicato un unico capitolo “Lui”. Ci sono scritti che raccontano le ragioni di certe scelte, quella della generazione (anche di artisti) che ha seguito l’onda di una ribellione necessaria, quella del ’68 che voleva creare nuovi universi e nuovi linguaggi. In un capitolo centrale del libro “Guerra e pace. Una convinzione e un desiderio per la prossima riforma: insegnare la storia dell’umanità attraverso l’arte e non la guerra” (il sottotitolo che sembra una proposta per un manifesto) Massimo Minini dichiara le ragioni e il valore dell’arte e di chi “fa arte” in relazione con il mondo. In particolare, nel discorso preparato per l’assegnazione del diploma di laurea all’Accademia delle Belle Arti di Brescia. «Non so perché accetto questa laurea questo ritorno all’ordine (…). Siamo in Accademia, non sputo nel piatto, tanti artisti nascono in Accademia. Eppure spesso i migliori artisti non vengono da qui, vengono dal marciapiede, trovano fonte di ispirazione nella vita reale, un po’ come me in Statale nel Sessantotto forse per una sorta di insoddisfazione. Il pittore, lo scultore, l’artista e l’autore, i fin dei conti si assumono delle responsabilità civili (e penali talvolta). (…) E se l’artista è responsabile non può essere un naïf, deve essere informato sui fatti, quindi deve studiare. Le responsabilità è quella di dare voce e immagine a un linguaggio -quello appunto delle arti che è emblematico di un’epoca. L’artista vero e importante da letteralmente voce e fiato a immagini che condizioneranno la cultura, e tramite questa, mondo. Ma sono convinto che bisogna studiare e leggere, discutere, vedere visitare, applicarsi con uno sforzo quotidiano che deve essere un piacere e d’altro canto bisogna insegnare senza pensare al voto (…)».
A questo punto è evidente che Massimo Minini non è “soltanto” un gallerista (soprattutto “non un mercante”, precisa). Inoltre, la sua curiosità in combutta con la sua cultura sterminata lo guidano (e lo hanno condotto sempre) come un esploratore verso infiniti territori, molto poco conosciuti. Per esempio, verso la sua passione per la fotografia che considera alla pari dell’arte contemporanea. Negli anni lo ha fatto avvicinare al lavoro di Mario Cresci e a quello di Franco Piavoli, regista cinematografico di “cinema di sole immagini” (1982 si fa conoscere con Il pianeta azzurro, suo lungometraggio d’esordio, in concorso al Festival del cinema di Venezia). Fino a Paolo Novelli, che informa con infiniti esempi di bianco e nero, mondi esistenziali ed evoca figure con un talento della luce che ricrea e scolpisce. Dai Tunnel alle pareti senza finestre… Ma dal cilindro escono fuochi d’artificio di continuo, sfogliando capitolo dopo capitolo. La raffinata semplicità dello stile (tornando a Calvino – che Minini cita spesso – si sente) ce li fanno sentire compagni di strada di una passione condivisa: perlustrare l’arte contemporanea come rabdomanti, cercando di capire.