Mentre le banlieues francesi ardevano, “l’Unità” pubblicava un’inchiesta atipica. Sei racconti -ora raccolti in volume da Stefania Scateni- nati dal calpestìo periferico, protagonisti uno scrittore e un artista. Per Torino, nella zona che si dipana spazio-temporalmente fra gli interventi urbanistici per il centenario dell’Unità d’Italia e quelli per le Olimpiadi invernali del 2006, la narrazione era affidata alla penna di Silvio Bernelli e ai foto-collage di Botto & Bruno.
Spesso a marcare le periferie nostrane è ancora la fabbrica, seppur dismessa, con i suoi indotti, compresi i complessi abitativi nati per ospitare gli operai. Se per progettare il futuro occorre comprendere il passato, allora è importante studiare il libro Fabbriche di Gillian Darley. Fabbriche come metafore del progresso e fulcro dell’organizzazione sociale (per restare a Torino, si pensi al Lingotto, dal progetto fordiano di Giacomo Mattè Trucco all’intervento di Renzo Piano). Ma soprattutto, per quel che c’interessa qui, oggetti architettonici che connotano alcuni arditi progetti urbanistici, come le varie tipologie di città-giardino. Un modello che ha come capostipite il fourieriano familistère di Guise, che trova la sua consacrazione con Ebezener Howard sul finire del XIX secolo e che ha il suo esempio più impressionante nell’organizzazione aziendale sviluppata dal moravo Tomas Bata (il cui architetto è Vladimir Karfik, collaboratore di Frank Lloyd Wright e Le Corbusier). Modelli superati? Non pare, a guardare complessi come quello della Ricola a Mulhouse, progettato da Herzog & de Meuron: “Questo ambiente sicuro e protetto è la versione del XXI secolo del villaggio industriale paternalistico”.
La città-giardino è fonte di ulteriori problematiche quando si passa dall’iniziativa privata all’impresa urbanistica pubblica. È il tema affrontato da Hans Bernoulli in Die Stadt und ihr Boden, tradotto dal neonato editore Corte del Fontego. Il cuore della questione è la proprietà del suolo: in mano ai privati, rende quasi impossibile l’elaborazione di un master plan, e di conseguenza l’urbanistica diviene mera “speculazione fondiaria”. Bernoulli guarda allora alla città medievale e vi innesta le riflessioni di Howard, concependo città-giardino in cui il terreno è di proprietà pubblica e sul quale il cittadino si avvale del diritto di fabbricazione: “Il suolo alla comunità, la casa alla proprietà privata”.
Questa prospettiva riformatrice è ampiamente superata da quella rivoluzionaria dei Situazionisti, il cui impegno nella riflessione urbanistica è ricostruito da un saggio di Leonardo Lippolis, che risale fino al 1947. Ritroviamo il riferimento al Medio Evo, ma nel caso di Debord e compagni il punto focale è il Carnevale. La città (la New Babylon di Constant, e dapprima le esperienze di CoBrA a Bregneröd, di Jorn ad Albisola Marina e del Laboratorio Sperimentale ad Alba; e quella descritta da Ivan Chtcheglov e Raoul Vaneigem) è il terreno inaudito dove sintetizzare arte, architettura e vita quotidiana. Gesamtkunstwerk in cui si progetta in permanenza l’habitat –gratuito, effimero, nomadico, partecipativo, dedalico– dell’homo ludens. Al capo opposto rispetto alla città corbusiana, nata per soddisfare funzionalmente i bisogni dell’homo oeconomicus. In altri termini: urbanismo unitario versus urbanistica parcellizzante.
Chiusa l’esperienza dell’Internazionale Situazionista nel 1972, la sua eredità è in parte raccolta da alcuni architetti radicali. Fra questi, Eric Owen Moss, il cui lavoro è presentato in un’agile monografia firmata da Emilia Giorgi. Nella “pianificazione-guerriglia” di Culver City tornano il dialogo con l’arte e l’apertura dionisiaca al camaleontismo: “Una città complessa, labirintica, ormai lontana dall’ideale modernista di razionalità e funzionalità”. E, tornando a Torino, si può citare l’opera di Luca Moretto, ad esempio il Collegio universitario Einaudi-San Paolo che fronteggia la Fontana-Igloo di Merz. In questo caso riemergono il colorismo spaziale di Constant e Aldo van Eyck –“reazione spontanea al ruolo passivo assegnato al colore nell’architettura moderna”–, la necessità di arricchire l’architettura con l’espressività del colore espressa da Asger Jorn, l’immaginismo di Ettore Sottsass jr.
Ciò che contraddistingue queste esperienze è il profondo rapporto col suolo e il paesaggio: Landform architecture ampiamente “debitrice” della cosiddetta arte pubblica. Tema, quest’ultimo, del saggio di Lorenza Perrelli sottotitolato Arte, interazione e progetto urbano, nel quale si riflette sulle potenzialità di una progettazione che coinvolga artisti, architetti (del paesaggio) e designer interessati all’ambito urbano, nella comune tensione al coinvolgimento strutturale del “pubblico”. In questo senso, necessaria ma non sufficiente è la componente site specific, come avviene nella straordinaria collezione Gori allestita nella Fattoria di Celle e ricapitolata dal volume edito da Gli Ori.
Per compiere il passo successivo si può ricorrere al concetto di Artscape, oggetto del recente libro di Luca Galofaro, che denota una pratica nella quale interagiscono arte, architettura e paesaggio, e in cui “i fruitori smettono di essere normali osservatori e si trasformano in elementi indispensabili alla definizione dello spazio che li ospita”. Ancora una volta, sono le conseguenze dell’esperienza situazionista –riletta da Deleuze e finanche da Rosalind Krauss– a impregnare gli esempi scelti da Galofaro. Due fra molti: il progetto del gruppo Stalker che trasforma un confine in una frontiera porosa, o le abitazioni provvisorie e deambulanti di Casagrande & Rintala. Esempi che paradossalmente sfruttano un termine wagneriano, opera d’arte totale. Opere totali ma non totalizzanti, che non dovranno scordarsi dell’importanza di ogni senso percettivo. L’udito innanzitutto, visto il riferimento al musicista. Verso un’eco-sound-scape, come propone David Toop in Land Art: A Cultural Ecology Handbook.
marco enrico giacomelli
*foto in alto: Eric Owen Moss – particolare dell’intervento a culver City, California – photo Walt Lockley (dettaglio)
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