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Moda, specchio della trasformazione: l’ultimo saggio di Alessandra Vaccari
Libri ed editoria
Si tratta di un viaggio multifocale nella moda italiana del Novecento, sottolineando le implicazioni che la creazione di abiti ha con il cinema, il teatro e le arti visive. Indossare la trasformazione di Alessandra Vaccari ha come ambizioso obiettivo quello di aprire nuovi occhi, nuove chiavi di lettura di un fenomeno, di un linguaggio, di un’industria spesso relegata a dimensione culturale marginale. La studiosa italiana, docente allo IUAV di Venezia, non nuova a preziosi contributi interdisciplinari, analizza la moda come fenomeno complesso e ibrido alla luce dei fermenti modernisti di inizio ‘900, attraverso le figure di Rosa Genoni, attivista e stilista femminista, dell’artista Filippo de Pisis e del camaleontico performer Leopoldo Fregoli.
Il saggio si apre con un focus metodologico sul rapporto tra moda e Storia, facendo comprendere quanto il legame sia sempre stato solido, come d’altronde l’autrice fa già nel precedente Il tempo della moda. Attraverso gli abiti trasformabili, Vaccari approfondisce e chiarisce che significato ha la moda per il tempo e il tempo per la moda. Questa tipologia di abiti diventano archetipo e paradigma dello stretto legame che esiste tra il divenire della moda e le trasformazioni del tempo indicando una prospettiva che vede l’abito come un mezzo per indagare identità sessuali, ruoli di genere, confini tra corpo biologico e culturale, tra spazio pubblico e privato. Una prospettiva di moda incarnata che non è inerte e passiva rispetto a fattori ambientali, etici ma che vede una stretta connessione tra corpo attivo e scelta dell’abito da indossare.
In quest’ottica la moda è un ecosistema capace di tenere insieme aspetti materiali e immateriali, di sondare i confini tra corpi e oggetti e di interrogarsi sul contributo che l’abito può dare all’interpretazione di queste dimensioni relazionali, culturali. Si mette in campo un’attitudine analitica, tentacolare che attraverso l’interazione, la trasformazione degli abiti aiuta a «Considerare l’esperienza del vestire come un fatto individuale e politico insieme. L’abito è sempre incarnato e, come una soglia, permette di collegare il corpo di chi lo indossa con la realtà che lo circonda.
Gli abiti trasformabili considerati in questo libro sono accomunati dall’essere stati pubblicamente indossati dai loro stessi ideatori: Fregoli, Genoni e de Pisis. La moda incarnata crea abiti in divenire, capaci di dar vita a nuovi mondi e possibilità molteplici a chi li indossa. La moda si fa linguaggio polisemico, campo di attivazione di forme in continua trasformazione che generano significati in un processo di mescolanza di discipline e saperi provenienti da: semiologia, psicologia, fisica, scienza, tecnologia, estetica, economia, sociologia.
«C’è un vestito parlato e uno parlante che tendono a mescolarsi fra loro, rendendo talvolta indecidibile dove termini l’uno e dove cominci l’altro». L’idea di modernità dell’autrice comincia da ricordi personali, da microstorie familiari che si intrecciano con un’idea più allargata di trasformazione. Ecco che prende forma un divenire, un processo di messa in movimento che coinvolge non solo la trasformazione dell’abito in termini tecnici, bensì una mutazione etico-sociale.
Se nei ricordi infantili di Vaccari è l’abito con le maniche staccabili della nonna Iolanda nel flusso della Storia, questo desiderio di liberazione si intreccia con Gabrielle Coco Chanel, la “petite robe noire” che serviva a «Riscattare le donne dall’invisibilità storica», insieme ai pantaloni e al taglio mascolino, o meglio, à la garconne. La moda quindi non si interessa solo di restituire forme di abiti, ma anche a promuovere significati, ideali di comportamenti incarnati in corpi in continuo divenire.
Nella nostra epoca postumana segnata dalla doppia fragilità ecologica e tecnologica, forse, gli abiti trasformabili hanno a che fare con le frontiere digitali e con corpi che Donna Haraway chiama cyborg: umani-macchina ibridi, teorizzati e fabbricati. Se la moda ha uno stretto legame con ogni tempo, la prossima vicina trasformazione allora potrebbe essere proprio questa. Come afferma il filosofo della trasformazione incarnata Paul Beatriz Preciado: «Il tempo è in fiamme. La domanda non è più chi siamo ma in che cosa ci trasformeremo».
Tornando al saggio di Alessandra Vaccari troviamo questo intreccio di implicazioni culturali e etiche rappresentato nell’abito Tanagra creato da Rosa Genoni e reso celebre dall’attrice Lyda Borelli. È il 23 aprile 1908 quando Rosa Genoni prende parte al Primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane e dimostra che mutare il corso della moda è possibile ispirandosi ad una statuetta di terracotta del Terzo secolo a.C. La Genoni è una donna, sarta, insegnante, socialista e pacifista.
Al Primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane del 1908 si presenta avvolta in un abito nero di sua invenzione e realizzazione: si chiama Tanagra, Il nome corrisponde a quello di una città in Beozia, dove a inizio Novecento vennero rinvenute statuette fittili i cui abiti drappeggiati furono notati dalla stilista durante una visita al Museo del Louvre. Da qui l’idea di un abito nel quale muoversi con libertà. Un abito che, dopo la lunga stagione del corsetto e della crinolina, torna al drappeggio. Un abito che è parte di un discorso politico.
In qualità di delegata della Società Umanitaria di Milano per la sezione Arti Decorative, Rosa Genoni tiene una lunga relazione di cui sono fondamentali alcuni passaggi:«In questi tempi in cui sono tanto di moda i congressi femminili e le rivendicazioni femministe, dovrà apparire a primo aspetto alle nostre lettrici cosa frivola e leggera occuparsi di una rivendicazione della moda…Le vesti femminili devono innanzitutto plasmarsi e adattarsi alla persona fisica e psichica della donna che le deve indossare. Qui è il segreto dell’arte e la difficoltà della riuscita. Questa è la ragione per cui una veste che rende ridicola una donna ammanta elegantemente e trionfalmente un’altra». Quando Rosa Genoni indossa il suo Tanagra è una delle prime occasioni in cui, dopo secoli di costrizione nella morsa del corpetto si pensa ad un abito privo di questa struttura costrittiva. È un abito in divenire, è un atto di creazione, di liberazione dei corpi.
La figura del trasformista e illusionista Leopoldo Fregoli dà ulteriore concretezza a questa dimensione trasformativa dell’abito. Nelle sue performance teatrali, Fregoli è stato in grado di trasmettere attraverso le trasformazioni, i cambi rapidissimi, fulminei di abiti, le numerose contraddizioni della modernità, pur generando un sorriso. Lo spettacolo della modernità prende la forma della mutevolezza, della trasformabilità degli abiti attraverso gli iperbolici cambi d’abito di Fregoli. È forse questo il vero spettacolo della modernità? A guardare all’esperienza futurista sembrerebbe proprio di sì. Visioni frammentate, mutevoli si declinano nei coloratissimi e trasformabili vestiti dell’Abito Antineutrale di Giacomo Balla. Siamo nel periodo dell’esaltazione futurista della velocità, del teatro illusionista e gli abiti ancora raccontano, incarnano questi ideali, ponendo le basi per immaginare i corpi in una forma nuova.
È la relazione tra corpo incarnato e natura a essere messa in campo da Filippo de Pisis, pittore e scrittore che inventa una pittura in grado di avvolgere, proprio come un abito. Siamo negli anni ’20, De Pisis partecipa al ballo Bal des Quat’z’ Arts, dove si appassiona alla trasformazione e inizia ad essere attento a stravaganza e eleganza, tratti che renderanno unica la sua figura in un movimento come quello futurista machista e patriarcale.
Filippo de Pisis propone la figura del dandy e, di conseguenza, un’eleganza liberamente gay aperta allo sconfinamento e all’accostamento di capi maschili e femminili. Scegliere di indossare in quegli anni un fiore all’occhiello, elemento considerato tipicamente femminile, significava opporre resistenza a dei canoni estetici dettati da un regime totalitario che imponeva di indossare “la camicia nera”, uniforme e simbolo di italiano-eroe, la trasformazione avviene attraverso un elemento e ancora una volta, si tratta di una trasformazione non solo tecnica, ma anche e soprattutto, sociale, culturale. La vita di Filippo de Pisis mostra e anticipa come arte e moda comunichino, definiscano l’assenza di confini tra generi.
La trasformazione, quindi, nel saggio di Alessandra Vaccari perde la sua connotazione tecnica per farsi processo culturale materializzato nei corpi delle persone. Cosa significa allora indossare la trasformazione? Lasciarsi avvolgere non solo dal tessuto dell’abito, ma dal ritmo, dalla trama interconnessa dei cambiamenti culturali e sociali che lo circondano, perché la moda è un agente attivo di trasformazione della storia.